Argentina, vince Milei: si passa al dollaro?

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Inflazione al 143% e il 40% della popolazione in povertà: per Buenos Aires non ci sono scelte semplici. Il nuovo presidente vuole liberismo e l'abbandono del peso per il biglietto verde, ma i legami con la Cina sono molto forti e il triangolo con Washington sarà molto difficile. Ecco cosa vuole fare il nuovo governo

Argentina, vince Milei: si passa al dollaro?

Al termine di una dura campagna elettorale, ha vinto in Argentina Javier Milei, ultraliberista di estrema destra che ha di misura battuto il peronista progressista Sergio Massa, già ministro dell'economia, con la promessa di un cambiamento radicale del Paese dopo decenni di cattiva gestione politica.

Le quote della vittoria sono del 56% contro il 44% di Massa e da Buenos Aires Milei ha già promesso l’avvio della ricostruzione dell’Argentina. Le sfide sono comunque durissime, vista la profonda crisi economica che affligge la popolazione da tempo. 

Le due promesse chiave del nuovo presidente argentino sono lo “sterminio” dell’inflazione, esplosa ormai al 143%, e il contrasto dell’impoverimento diffuso della popolazione, che è strettamente collegato all’iperinflazione.

L’economia del Paese ha registrato un enorme deprezzamento della valuta, il peso, riserve della banca centrale in forte calo e, tra l’altro, una profonda crisi collegata anche alla siccità e al suo impatto sull’importante settore economico dell’agricoltura.

Argentina, il piano di abbandono del peso per il dollaro

Di fronte a una situazione così grave Milei ha avanzato la controversa proposta della dollarizzazione, ossia l’abbandono del peso in favore del dollaro statunitense. Non è un’idea nuova in Sudamerica, ma non è mai stata adottata in un’economia grande come quella dell'Argentina, la seconda del Sudamerica con un Pil da circa 620 miliardi di dollari.

D’altronde la situazione si è fatta sempre più insostenibile negli ultimi anni: il 40% della popolazione è ormai in povertà.

L’abbandono del peso in favore del dollaro però significherebbe per Buenos Aires anche l’addio a una politica monetaria autonoma e lo stretto ancoraggio alle valutazioni del dollaro e all’economia statunitense che è profondamente diversa.

Già negli anni ‘90 l’ancoraggio del peso al dollaro Usa è stato tentato: l’inflazione scese in maniera corposa e in seguito la valuta carioca fu lasciata libera di oscillare scostandosi dal dollaro (disancoraggio).

Ci furono però delle conseguenze, infatti, il peso ancorato al dollaro si apprezzò notevolmente, soprattutto sui maggiori partner commerciali, il Brasile e l’Europa, che non adottavano il dollaro. Con un peso più forte sul real brasiliano e sull’euro, l’economia argentina perse competitività e accumulò dei deficit.

Allo stesso tempo l’accumulo di debito in dollari rese sempre più difficile l’abbandono dell’ancoraggio al biglietto verde. Il brusco abbandono del dollaro con una svalutazione del 29% del peso (fu adottato un cambio di 1,4 peso contro un dollaro) e l’immediata conversione in peso dei conti in dollari portarono a scompensi profondi. La grave crisi del 2001 e il famoso fallimento argentino secondo diversi osservatori nacquero anche così.

Allo stesso tempo però l’Argentina mostra oggi una situazione unica e grave, gli altri Paesi sudamericani hanno già ridotto l’inflazione alla cifra singola, mentre Buenos Aires, in controtendenza anche al resto del mondo, corre abbondantemente con un’inflazione a tripla cifra.

Sergio Massa, attuale ministro dell’economia, ha cercato di recente di alleviare l’impatto del carovita sui lavoratori con un taglio delle imposte, ma ha anche accusato il Fondo Monetario Internazionale: “Sapevamo che la svalutazione del 20% del peso imposta dall’FMI avrebbe colpito le tasche di tutte le famiglie argentine”.

L’Argentina, che ha un tasso d’interesse ufficiale del 133% (!), ha deciso infatti, ad agosto, di ancorare il peso al dollaro e ha imposto un rapporto di 350 peso per ogni dollaro che si è tradotto in una svalutazione della moneta nazionale del 18% circa. Una “scelta” della Banca centrale sostanzialmente imposta dagli accordi con il Fondo Monetario Internazionale. 

Il sostegno internazionale è stato in effetti fondamentale negli ultimi anni per l’Argentina, ma il Paese con un’economia proiettata verso un calo del Pil del 2,5% quest’anno e con una popolazione di quasi 47 milioni di abitanti in buona parte incapaci ormai di far fronte alle spese essenziali di ogni mese, si trova in una situazione molto difficile e non stupisce che abbia votato per il cambiamento, quale che sia.

Argentina, il Fondo Monetario Internazionale e la Cina

A luglio il Fondo Monetario Internazionale, che aveva in essere finanziamenti all’Argentina da 44,5 miliardi di dollari, aveva accusato l’amministrazione di aver fallito sul fronte delle riserve di valute straniera e sul taglio del deficit fiscale. Dopo mesi di trattative a fine agosto l’FMI ha acconsentito all’invio di una nuova tranche di finanziamenti da 7,5 miliardi di dollari, portando i crediti verso Buenos Aires a 36 miliardi, ma sottolineando il fallimento degli obiettivi di fine giugno, anche a seguito della storica siccità. Il finanziamento del Fondo Monetario all’Argentina è il maggiore della storia di questa organizzazione internazionale.

Risale al 2018 il salvataggio record dell’Argentina, ma il peggioramento delle condizioni economiche del Paese aveva spinto nel 2022 il presidente Alberto Fernandez a intavolare con il Fondo monetario delle trattative per la rinegoziazione del debito pubblico.

In pratica dal 2001 a oggi l’Argentina ha fatto ben tre volte default sul debito (ossia non ha pagato gli interessi alla scadenza) e ha ristrutturato il debito due volte (una durò più di 11 anni). Nell’ultimo anno però gli effetti indiretti della guerra russa in Ucraina e la siccità che ha colpito i raccolti e danneggiato l’export hanno aggravato le fragilità del Paese. 

L’Argentina si è poi molto legata alla Cina con importanti linee di currency swap, ossia con prestiti che il Paese ha impiegato anche per ripagare i debiti con l’FMI.

A oggi su 23,8 miliardi di dollari di riserve internazionali lorde, 17,9 miliardi derivano dai currency swap con la PBOC, la banca centrale cinese.

Così, anche se Milei ha dichiarato che non rafforzerà i legami politici con la Cina o altri Paesi comunisti, in pratica non potrà ignorare il debito con la Repubblica Popolare. I legami sono troppo forti, anche da un punto di vista economico, infatti la stessa Cina è il secondo partner commerciale dell’Argentina dopo il Brasile.

La questione con la nuova presidenza si farà dunque sempre più geopolitica e la Trade War tra Washington e Beijing passerà anche dall’Argentina. Se Milei vuole sganciarsi dalla Cina - queste le sue dichiarazioni- per allinearsi strettamente agli Stati Uniti, in pratica i rapporti sono così forti, che sarà molto difficile perseguire il piano in pratica. La polarizzazione globale potrebbe insomma trovare un altro terreno caldo anche a Buenos Aires.

Né gli Stati Uniti, quale che sia l’esito delle prossime elezioni del 2024, potranno o vorranno coprire le esposizioni cinesi dell’Argentina e sborsare i 18 miliardi di Pechino per sostituirsi come creditori.

Argentina, le altre idee di Milei

Milei, leader di La Libertad Avanza con poca esperienza politica, ha criticato aspramente la classe politica corrotta del suo Paese in passato, ma ha un’esperienza economica importante come capo economista per la Maxima Administradora de Fondos de Jubilaciones y Pensiones (AFJP), presso lo Studio Broda, come consulente governativo e anche come economista senior per la banca internazionale HSBC. Non a caso in molti lo vedono, nonostante i parecchi discorsi “antisistema”, come il principale artefice della rinascita del liberismo argentino e tra i suoi piani spiccano un forte taglio della spesa pubblica, una riforma fiscale per l’abbassamento delle imposte e una riforma del lavoro che elimini i compensi nei casi di dimissioni senza giusta causa. 

Milei intende anche incoraggiare un sistema previdenziale di tipo privato e ridurre i ministeri con portafoglio, eliminare, in coerenza con la dollarizzazione, la Banca centrale argentina e liberalizzare lo scambio internazionale tagliando spese doganali e affini.

Alla base l’idea che l’attuale crisi inflattiva argentina sia stata causata dal finanziamento del deficit pubblico argentino da parte della Banca centrale. Non mancano però i pericoli su questa strada, per esempio il fatto che le riserve in valuta straniera del Paese sono molto basse e solo un terzo dell’economia argentina è collegato agli scambi internazionali, molto meno di Paesi sudamericani come El Salvador o Ecuador. Senza considerare che l’export agricolo ha subito il forte impatto dalla siccità.

Adesso il primo presidente liberista della storia argentina dovrà confrontarsi con tutte queste difficoltà. E di certo c’è soltanto che non sarà facile.