Tassi, ancora vendite sui titoli di Stato, in Europa e negli Stati Uniti
pubblicato:Rally dei rendimenti, cresce il premio al rischio sia in Europa che negli Stati Uniti. Bond Vigilantes? Deficit? La Fed prende tempo, la BCE non batte ciglio
In meno di un mese il rendimento del BTP decennale italiano è balzato dal 3,17 al 3,74% Quello del Bund tedesco dal 2,03 al 2,6%, quello dell’Oat francese dal 2,86 al 3,43% addirittura. Quello del Treasury statunitense ha cominciato la rincorsa molto prima, a metà settembre, quando il rendimento del decennale USA era al 3,62% mentre ora vola verso il 4,78%.
Il record di domanda da 270 miliardi di euro per le ultime aste di BTP decennali e BTP Green della Repubblica Italiana (a fronte di un'offerta da 18 miliardi!) dice tutto.
Sicuramente pesano la stagnazione europea +0,4% di Pil nel terzo trimestre 2024), la sua crisi manifatturiera, le sue molteplici crisi politiche (Francia, Germania, Austria…), mentre negli Stati Uniti, pur con un’economia ancora molto solida, i cittadini hanno ribaltato la vecchia maggioranza e sono tornati a Donald Trump che promette da tempo politiche dal potenziale inflazionistico nonostante poi in molti l’abbiano votato per lo sdegno sul caro-vita.
Le spiegazioni, quando si parla di macroeconomia, non sono mai lineari e sono sempre policentriche, complesse. La contraddizione tra banche centrali che tagliano il costo del denaro e tassi reali che salgono comunque stride.
Tassi, dollaro e rendimenti, il biglietto verde continua a correre
Se si guarda al dollaro l’anomalia si attenua un poco. Il biglietto verde si è apprezzato sull’euro in maniera consistente negli ultimi mesi, il cambio euro/dollaro è passato da 1,12 a 1,02, un calo di quasi il 10% che spinge molti a ipotizzare una prossima parità transatlantica (altri ancora vedono i rendimenti del Treasury verso il 5%).
La più semplice delle relazioni tra dollaro e rendimenti del Treasury spiega che se gli investitori comprano titoli di Stato Usa (magari attratti dai rendimenti elevati), tolgono dollari dal mercato, potenzialmente spingendo al rialzo anche il biglietto verde, che diventa più raro.
Al contempo salgono i prezzi dei bond, per quell’eterna relazione inversa tra prezzi e rendimenti dei titoli di debito.
Il dollar index, indice della valuta USA contro le altre maggiori sui cui pesa in maniera preponderante l’euro (57,6% contro il 13,6% dello yen), è balzato da quota 100,38 il 27 settembre scorso a 109,8. Quindi quel mantra della finanza della coerenza tra gli indici almeno in questo caso pare salvo.
USA, accidenti l'economia corre
Negli Stati Uniti però la tensione cresce negli ultimi mesi. L’ultimo report sulle buste paga del settore non agricolo appena pubblicato rivela che nel mese di dicembre gli Stati Uniti hanno creato 256 mila posti (nonfarm payroll) molti di più dei 164 mila posti previsti dagli analisti e più dei 212 mila creati a novembre (dato rivisto da una prima lettura posta a 227 mila unità).
Il report del Bureau of Labor segnala anche un calo della disoccupazione dal 4,2 al 4,1%, ancora sul minimo fisiologico. Si legge che hanno spinto le richieste di nuovi occupati il settore sanitario, il governo, l’assistenza sociale. Anche il commercio al dettaglio è tornato a chiedere risorse umane.
Con un tasso di occupazione stabile al 62,5% il mondo del lavoro statunitense appare decisamente sano, anche migliore delle attese. Sono cresciuti a dicembre i salari in vari settori, dalle utility alle attività finanziarie, dall’educazione al trasporto e alla logistica. I rischi inflazionistici crescono, le prospettive di nuovi tagli dei tassi si raffreddano.
Il Pil reale degli Stati Uniti è cresciuto del 3,1% nel terzo trimestre (alla terza stima).
Nello stesso periodo se l’indice PCE dei prezzi al consumo si è posto all’1,5%, l’indice PCE “core” (al netto di cibo ed energia) si è posto al 2,2%. Ma si tratta di stime sui prezzi ottimistiche, perché il dato di novembre mostra un’inflazione PCE in crescita al 2,4% e un indice PCE core al 2,8% addirittura.
USA, la Fed segna il passo, meno tagli del previsto quest'anno
I dot plot del meeting della Fed del 18 dicembre, ossia il documento in cui tutti i membri votanti esprimono con un punto (dot in inglese) le previsioni sui tassi nell’orizzonte previsionale, indicavano attese di tassi nel range 3,75%-4,00% per i 2025. Considerando che siamo al 4,25%-4,50% a fine anno, significa che sono attesi in media due tagli dei tassi d’interesse, contro i 4 o 5 delle previsioni di appena pochi mesi fa.
Quindi una “stance” decisamente più restrittiva che fa il paio con l’inflazione non doma del mercato a stelle e strisce. Che il dollaro si riapprezzi non può sorprendere quindi.
La normalizzazione continua, ma a un ritmo decisamente più lento del previsto. La paventata recessione USA non si è affatto verificata, ma il lavoro della Fed non è finito.
E’ noto che Trump vorrebbe un dollaro debole invece per esportare, che i rapporti con Powell sono stati spesso burrascosi in passato, che la Fed è gelosa della propria indipendenza.
Usa, bond vigilantes e deficit
C’è poi nel caso statunitense un elefante non repubblicano che è il deficit: siamo al 6,4% del Pil a settembre, roba da economia di guerra che fa tremare i polsi a diversi analisti. Con un debito da oltre 35,4 trilioni di dollari c’è poco da scherzare e per quanto Musk prometta di tagliare i costi della cosa pubblica, gli spazi di manovra rischiano di essere limitati.
I bond vigilantes sono già in acqua. Lo ha ricordato Pimco in una nota di pochi giorni fa. I bond vigilantes sono i grandi investitori che guardano a debito pubblico, deficit, Pil e altri indicatori macroeconomici prima di investire nei titoli di Stato un Paese. L’approccio è abbastanza semplice, se un Paese spende troppo o cresce poco, diventa più rischioso e loro chiedono un rendimento maggiore ai titoli di Stato. D’altronde un’altra definizione dei rendimenti è quella di premi al rischio.
Tassi, l'Europa va per la sua strada
Fra le varie considerazioni che Pimco, uno dei massimi esperti mondiali in materia, poneva ce n’era una intrigante:
“Gli Stati Uniti vantano un conto economico più robusto, ma l’Unione Europea ha uno stato patrimoniale più solido”
Gli Stati Uniti hanno un debito/Pil del 122% circa, l’Unione Europea è sull’81% circa (con grosse variazioni tra il 135% dell’Italia, il 111% della Francia, il 108% della Spagna e 63% della Germania). Appare quindi coerente dal punto di vista del bondholder che i rendimenti americani siano più alti.
In fondo la solvibilità è più una questione da stato patrimoniale, che da conto economico, anche se la crisi ci ha insegnato che i problemi sorgono quando il debito cresce più del Pil.
Ora per il Vecchio Continente le strettoie della stagnazione economica stanno spingendo la BCE a tagliare con costanza i tassi d’interesse.
Le due politiche monetarie, della BCE e della Fed, hanno cominciato a divergere già l’anno scorso, ma non troppo. Quest’anno le cose potrebbero diventare più complicate.
Perché dopo il meeting hawkish della Fed di dicembre, le previsioni sui tagli dei tassi USA sono state – come visto – ridimensionate, mentre quelle sui tagli della BCE prevedono ancora quattro o cinque tagli quest’anno. Significherebbe passare dal 3,15% attuale (tasso di rifinanziamento delle operazioni principali), già sotto di oltre un punto sui tassi della Fed, al 2% circa, con uno spread in crescita ed ulteriori effetti su valute e titoli di Stato (oltreché sull’economia).
Gli ultimi dati dell’inflazione europea non hanno rassicurato però sulla battaglia ai prezzi, crescendo ancora ben oltre il target. Siamo al 2,4% per l’Eurozona con i servizi risaliti al 4%, ma la BCE non ha battuto ciglio.
L’ultimo bollettino economico della banca centrale ribadisce:
“Il processo di disinflazione è ben avviato”.
Che ci fosse maretta nel breve termine se lo aspettavano, prevedono che dal secondo trimestre del 2025 i prezzi si ricollochino sul target del 2%.
Tutto sotto controllo insomma. Ma intanto i premi al rischio raccontano un’altra storia.