Petrolio, ancora tensioni sui prezzi
pubblicato:Canada in crisi, domanda cinese in calo, ma il petrolio si apprezza e segue l'andamento del dollaro. La struttura dei future invia però segnali diversi: i prezzi nel corso del 2025 dovrebbero calare
Continua il rally di recupero del petrolio greggio nei mercati internazionali. Anche stamane balzano le quotazioni di Brent, che passa di mano a 81,11 dollari al barile con un rialzo dell’1,65%, che porta la performance dell’ultimo mese a un +9,72% I prezzi dell’oro nero europeo hanno scavalcato con vigore gli ostacoli di area 79,5, che erano stati un potente baluardo contro i recuperi ad agosto e ottobre. In area 83,8 dollari si può individuare il prossimo obiettivo di breve.
Quadro simile anche per l’”americano” WTI che guadagna l’1,55% e si porta a 76,97 dollari. Per il West Texas Intermediate la performance dell’ultimo mese mostra un rialzo del 9,6% e pone, così come per il Brent, una più consistente incognita sulle conseguenze inflattive di questa fiammata dei prezzi del petrolio che si comunicherà probabilmente ai costi dell’energia, non soltanto per i trasporti.
Anche in questo caso i prezzi del barili hanno superato ostacoli di rilievo, segnatamente in area 75 dollari o poco sotto, che da agosto a ottobre avevano tarpato le ali ai tentativi di rimonta dei corsi.
Petrolio, balzo delle trivellazioni in Canada, ma a Ottawa è crisi
L’ultima variazione settimanale degli impianti di trivellazione attivi fatta da Baker Hughes venerdì scorso ha visto un calo di 5 unità dei pozzi negli Stati Uniti (584 al 10 gennaio) e sono diminuiti di 10 unità anche quelli internazionali conteggiati dalla società di servizi all’industria, mentre l’attività canadese ha segnato un balzo di 122 unità a 216 complessive.
Un balzo canadese a tripla cifra che non è sfuggito agli osservatori più attenti di settore. In altre parole i perforatori di pozzi di petrolio (alla ricerca anche di gas) hanno tagliato per la prima volta le operazioni in sei settimane. Una indicazione sorprendente per certi versi alla luce del “drill, baby drill” lanciato a più riprese da Donald Trump come una cifra della sua prossima presidenza.
Se si considera poi la pressione sul Canada, che Trump vorrebbe rendere il cinquantunesimo stato USA, ma che sta vivendo una crisi politica ed economica grave, le reazioni di Ottawa appaiono coerenti sul piano degli investimenti nel petrolio.
Il Canada è un protagonista del petrolio con il 5,6% di quota globale in termini di produzione di greggio, ma è a rischio con la minaccia di Trump di nuovi dazi sulle importazioni fino al 25% Se si concretizzassero sarebbe un grosso pericolo sia per le auto canadesi, la cui esportazione è per il 91% coperta dagli Stati Uniti, ma anche per i beni energetici come petrolio e gas.
Nel 2023 il Canada esportava l’81% del petrolio prodotto e Washington assorbiva il 97% circa di questo mare di greggio. In termini di import/export nel 2024 gli Stati Uniti hanno segnato un deficit commerciale (in termini di beni) di 55 miliardi di dollari (peraltro in calo dagli anni precedenti), hanno importato beni per 377 miliardi dal Canada e ne hanno esportati 322 miliardi verso il Paese.
Ma il timore che la stretta di Trump sui dazi al Paese sia violento ha un ruolo pesante anche nell’attuale crisi politica. La crisi del Canada che oggi l’inserto A&F de la Repubblica definisce un “paradiso perduto e spaventato” ha portato infatti come noto a una rottura tra Chrystina Freeland, la ministra delle finanze del Paese che si è dimessa dal governo in polemica lo scorso 16 dicembre, e ha portato poi il 6 gennaio alle dimissioni dello stesso Justin Trudeau, premier canadese. Alla base di tutto anche la minaccia dei dazi trumpiani, ma pure la crisi di un modello economico che rallenta.
Di certo gli effetti delle nuove misure che il nuovo governo dovrebbe intraprendere quando un nuovo leader liberale sarà scelto al posto di Trudeau (ammesso che non si vada alle elezioni anticipate) e poi le manovre dopo le elezioni federali in calendario per il prossimo 20 ottobre influenzeranno anche i mercati mondiali delle materie prime e del petrolio greggio.
Petrolio, il peso della Cina
Ancora più attuale è però il dato pubblicato oggi dalla Dogana cinese, che ha diffuso le importanti rilevazioni della bilancia commerciale mondiale e per nazione.
La capacità manifatturiera cinese è colossale e universalmente percepita in Occidente come un pericolo, nonostante il suo potenziale deflazionistico, è capace di scardinare gli assetti industriali di Stati Uniti ed Europa, anche grazie a un finanziamento statale massiccio e politiche anticoncorrenziali che la comunità internazionale fatica a contrastare, soprattutto sul fronte di brevetti e tutela della proprietà intellettuale. Detto questo le eccellenze anche tecnologiche locali non mancano.
Comunque passando ai dollari, nel mese di dicembre la Repubblica Popolare ha registrato un avanzo commerciale globale di ben 104,8 miliardi di dollari. Nell’intero 2024 si arriva una surplus commerciale mondiale di quasi mille miliardi di dollari! (992 milioni per l’esattezza).
Roba da fare impallidire qualunque ambizione protezionistica, anche se sull’export Beijing ha accelerato quando ha capito che presto o tardi i dazi negli Stati Uniti e in Europa si sarebbero rafforzati. Peraltro in realtà la prima presidenza Trump non riuscì affatto a ridurre il deficit commerciale di Washington con la Cina e anche oggi siamo lì, nel 2024 il deficit commerciale degli States è stato di 361 miliardi di dollari con la Repubblica Popolare.
Ma sul lato petrolifero le cose da guardare sono altre: nel 2024 la Cina ha importato l’1,86% del petrolio greggio in meno, anche se sono cresciute le importazioni di raffinati (+0,96%) e di gas naturale (+9,87%).
Sul fronte del greggio, significa che l’anno scorso l’ex Impero Celeste ha importato qualcosa come 4,05 miliardi di barili di petrolio, ma il segnale è terribile per gli operatori perché è il primo calo delle importazioni di petrolio in vent’anni. Sempre di più sui parla dell’impatto della deflazione cinese e della diffusione dei trasporti elettrici (6 auto elettriche su 10 oggi vengono vendute in Cina) come imputati per la contrazione di questa componente fondamentale della domanda mondiale di petrolio.
Di certo una domanda debole di carburanti ha compresso la richiesta dei raffinatori cinesi (sia pubblici, che privati) e ne ha segnato il passo.
Ma allora cosa spinge le quotazioni del petrolio anche oggi? Durerà?
Petrolio, anche nel dollaro la chiave delle quotazioni
Le valutazioni del petrolio greggio nei mercati internazionali negli ultimi mesi, come sempre, sono il condensato di una serie multipla di fattori, l’offerta (come nel discorso sul Canada) e la domanda (la Cina, ma non solo) sono i due pilastri del meccanismo di formazione del valore, ma sono fondamentali anche altri chiavi di lettura collegate, dalla geopolitica (e la questione mediorientale con il coinvolgimento dell’Iran che già in passato ha bloccato lo Stretto di Hormuz) all’evoluzione tecnologica (leggasi elettrificazione dei trasporti con il trend di lungo periodo di compressione della domanda di petrolio).
Un fatto che però è sempre essenziale per capire l’andamento delle quotazioni del petrolio greggio è però anche quello valutario. Non esistendo ancora un mercato solido del petrolio in euro o in yuan, nonostante l’imperioso processo di de-dollarizzazione degli emergenti in corso, il dollaro rimane la valuta di riferimento della maggior parte delle transazioni sul greggio.
Ora il grafico del dollar index, il paniere che traccia l’andamento del biglietto verde rispetto alle maggiori valute (specialmente euro che ne copre il 57% circa), non lascia dubbi. Con la sua accelerazione da quota 99 a settembre a gli attuali 109,9 oltre i massimi di agosto e ottobre mostra un movimento molto simile a quello dei principali grafici del petrolio greggio.
Storicamente questo legame forte tra quotazioni del petrolio greggio e del dollaro era un’anomalia, ma adesso il “new normal” sembra uno stretto legame. Se ne è accorta anche la Bce che attribuisce questo nuovo legame al cambiamento storico, nato in epoca Obama, vistosi con l’avvio delle esportazioni di idrocarburi e greggio su larga scala da parte degli Stati Uniti.
Il fracking è stato una rivoluzione per gli Stati Uniti che potenzialmente ha aggravato in passato l’impatto dell’inflazione sull’Europa.
Se tutto questo è vero, i rischi per l’inflazione nel Vecchio Continente e per i tassi appaiono anche dalle quotazioni del petrolio greggio in crescita.
Petrolio, ma dal mercato vengono segnali di speranza
Ma proprio dal mercato vengono segnali di ottimismo. Sui mercati dei future in generale e su quelli delle materie prime in particolare non sono soltanto i prezzi spot (ossia attuali/momentanei) a contare, ma anche la struttura dei prezzi sulle scadenze future che tracciano il sentiment degli operatori di mercato sull’evoluzione futura delle quotazioni.
Bene sull’ICE i future sul Brent con scadenza a marzo 2025 passano in queste ore a 81,24 dollari, ma a già a giugno scivolano a 78,03 dollari. A settembre i prezzi del Brent sono a 75,87 dollari, a dicembre sono a 74,3 dollari. Si tratta di una situazione tecnica in cui i mercati si aspettano un futuro calo delle quotazioni del petrolio greggio Brent, tecnicamente si chiama backwardation, qualcuno lo definisce mercato invertito. Di certo, tra tanti segnali negativi, è uno spunto positivo da mettere nella bilancia delle considerazioni.
Oltretutto un quadro simile si osserva anche per il WTI, che oggi passa di mano a 77,1 dollari al barile (scadenza di febbraio 2025), ma per giugno è visto a 74,48 dollari al barile, per settembre a 72,04 dollari e per dicembre a 70,6 dollari.
Le turbolenze sui prezzi del petrolio greggio (e degli energetici in generale) potrebbero insomma essere temporanee e le quotazioni dovrebbero flettere nel corso dell’anno.
Proprio come prevede la BCE. Sperando che abbia ragione.