Rebus Commodity, petrolio ancora in affanno e a sei mesi restano forti stagno e zinco

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Opec e Cina lasciano debole il greggio, ma geopolitica e clima creano incertezza su diversi fronti, dai metalli per gli armamenti alle materie agricole come grano, cacao e caffè

Rebus Commodity, petrolio ancora in affanno e a sei mesi restano forti stagno e zinco

Resta debole il petrolio greggio nei mercati internazionali a inizio settembre. Il Brent in queste ore scivola sotto i 77 dollari con un ribasso frazionale dello 0,11% Stessa performance per il WTI che torna a 73,65 dollari al barile.

Il petrolio debole, tra Opec+ e Cina

Come sempre per l’oro nero un coacervo di questioni compone il quadro di quello che rimane ancora il maggior carburante da trasporto del mondo. Innanzitutto si attende da ottobre un incremento della produzione dell’Opec+, il cartello dei produttori allargato alla Russia che senza successo ha cercato da tempo di risollevare i prezzi riducendo in maniera coordinata l’output di barili di greggio.

Nell’ultimo anno il Brent ha comunque perso il 5,76% e il WTI ha guadagnato il 3,62%, ma mentre il cartello guidato da Arabia Saudita e Russia cercava con scarso successo di imporre disciplina su accordi che molti altri Paesi non rispettavano (o non riuscivano a rispettare), lo sguardo del mercato si è volto sempre più spesso sul lato della domanda, dove i chiari di luna dell’economia cinese hanno più volte fatto vacillare le valutazioni le aspettative.

La giornata di oggi conferma. Le indicazioni sul PMI manifatturiero cinese sono state contrastanti: sabato l’indice PMI manifatturiero ufficiale della Repubblica Popolare si è posto a 49,1 punti, sotto le attese (49,5) e la lettura precedente (49,4) e sui minimi degli ultimi sei mesi. Stamane però l’indice PMI manifatturiero di agosto sulla Cina rilevato da Caixin ha segnato 50,4 punti, oltre le attese (50) e la rilevazione precedente (49,8). Di certo viene meno l’effetto timori di approvvigionamento che nelle scorse sedute aveva sostenuto i corsi del petrolio a seguito del calo della produzione in Libia e dei rumors su una sforbiciata dell’output iracheno a settembre a 3,9 milioni di barili al giorno contro i 4,25 milioni di luglio.

E già qua si scivola sul tema forte della geopolitica delle materie prime. Un tema che oscilla dalle forniture di armamenti all’Ucraina da parte di Europa e Stati Uniti alle manovre della Russia in Africa, dalla gara difficile per recuperare filiere di materie critiche all’Europa e agli States al vantaggio competitivo e spesso schiacciante della Repubblica Popolare cinese su questo vero e proprio fronte.

Se ci si ferma ai mercati, gli affari veri negli ultimi sei mesi li ha fatti chi ha investito in stagno e zinco: i future sullo stagno hanno fatto un balzo semestrale del 22,8% e quelli sullo zinco sono balzati del 19,2% Molto meglio di materie critiche assai più monitorate dagli operatori come l’alluminio (+9,4%) o il rame (+8,5%).

Materie prime per la Difesa

Un brillante articolo del 25 agosto sul Sole 24 Ore ricordava che le materie prime critiche per la Difesa (leggi forniture di armi all’Ucraina e alla Nato oltreché nuove commesse nazionali occidentali) sono numerose per Italia, Europa e Stati Uniti. Non solo il rame o l’alluminio, ma anche titanio, grafite, terre rare

Tutte eccellenze della filiera globale cinese che ci trovano sguarniti in questa delicata fase e che si mescolano in una miscela letteralmente esplosiva con i tesi rapporti geopolitici degli Stati Uniti (e dell’Europa) con la Repubblica Popolare. Le attese sulla politica commerciale USA dopo le prossime elezioni di novembre ci mettono del suo, ma il quadro visto da vicino si fa ancora più complesso.

Materie prime, quelle agricole subiscono geopolitica e cambiamento climatico

Una novità della guerra in Ucraina è stato il terremoto sul mondo delle materie prime agricole. Dai semi di girasole al grano abbiamo registrato rapidamente veri e proprie allarmi sulle forniture per l’Europa e per i Paesi in via di sviluppo (che rischiano crisi alimentari e quindi tensioni geopolitiche spesso al confine con l’Europa).

L’impatto del grano ucraino sull’economia europea, le nuove forniture da Kiev, è stato un terremoto per molti produttori, dalla Francia alla Polonia. All’inizio le tensioni hanno portato i prezzi per bushel americano da 530 a quasi 1.200 dollari (un bushel è circa 27,2 chilogrammi), ma poi il nuovo mix con maggiori importazioni dall’Ucraina ha riportato i prezzi sui 530 dollari, con una normalizzazione (-11,67%) che ha lasciato diversi scontenti sul campo.

La geopolitica delle commodity non è una novità: basti pensare all’altalena dei prezzi del gas o al tradizionale legame tra conflitti in Medioriente e prezzi del greggio, ma questa volta per le materie prime agricole si registra (con il solito apporto importante della finanza) anche l’impatto del cambiamento climatico.

In un anno il prezzo del cacao è balzato del 166% ai 9.669 dollari per tonnelata di oggi. Se a inizio anno hanno pesato non poco sul cacao gli investimenti speculativi miliardari al rialzo di diversi hedge fund, è stato anche ben presto chiaro che condizioni climatiche avverse in Ghana e Costa d’Avorio (che da soli coprono il 60% del mercato mondiale del cacao) stavano falciando la produzione, scaldando i prezzi. In Ghana inondazioni causate da “El Nino” hanno tagliato un terzo del raccolto limandolo a 650 mila tonnellate in abbinata con malattie delle piante favorite dall’eccesso di umidità.

A fine marzo il presidente della Costa d’Avorio Alassane Ouattara ha aumentato del 50% a 1.500 CFA (2,47 dollari) il prezzo ufficiale alla produzione del cacao. Il prezzo del cacao al consumo in Europa era a maggio del 6,3% più alto di un anno prima e in molti davano già per scontati ulteriori rincari in arrivo. E’ di oggi la notizia di Reuters che il Ghana aumenterà del 45% il prezzo del cacao pagato agli agricoltori nella stagione 2024/2025.

Notizie preoccupanti per gli europei golosi di cioccolata, ma non come quelle in arrivo agli italiani sul caffè. A fine agosto siamo arrivati al record di 261 dollari a libbra. In un anno il balzo è del 60,72% e sono già insorte le associazioni di consumatori preoccupate che il costo della tazzina lieviti fino a 2 euro dopo i rincari degli ultimi anni.

Questa volta i problemi climatici sono partiti dal Vietnam, dove si è registrata una siccità devastante, e dal Brasile, dove invece si sono registrate inondazioni e maltempo a maggio, con decine di morti e danni alle piantagioni di caffè. Anche in questo caso la concentrazione delle produzioni nei due Paesi (quasi 5 milioni di tonnellate di export l’anno, più degli altri 10 concorrenti messi assieme) non fa bene al mercato.

Di certo le materie prime in questa fase si prestano alla diversificazione di portafoglio e alla differenziazione delle attività, aumentando però la già estrema volatilità del settore e trasmettendo componenti di rischio a mercati che non ne avrebbero affatto bisogno.

Basti pensare al litio, un metallo fondamentale per la transizione energetica quanto il rame: a differenza del metallo rosso che ha guadagnato quasi il 9% in un anno, il litio ha perso il 63% del proprio valore in 12 mesi. Siamo ai minimi dei prezzi degli ultimi 3 anni e la cilena SQM, un big del settore, ha registrato nel secondo trimestre di quest’anno un crollo degli utili del 63,2% Pesa molto la forte produzione del metallo e pesa anche la defaillance dell’auto elettrica globale nel 2024.

E guardarla da vicino diventa geopolitica anche questa.