USA, inflazione ancora in calo, ma per la Fed la posizione resta difficile

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Bond vigilantes all'opera, rendimenti e dollari in crescita. Con i dazi la politica della Fed si complica. L'economia è forte, ma...

USA, inflazione ancora in calo, ma per la Fed la posizione resta difficile

Fin qui tutto bene. Il Pil USA rallenta dal 3,0% al 2,8%, ma conferma una delle economie più solide del pianeta. Ma l’inflazione complessiva sui consumi PCE del terzo trimestre si cresce al 2,3% e aumenta anche l’inflazione sottostante PCE passando al 2,8%.

Le minute della Fed, ossia il resoconto dei temi discussi dai banchieri centrali d’America nei meeting del 6 e 7 novembre scorso approdati a un taglio dei tassi al 4,75% (4,50%-4,75% per l’esattezza), subito dopo le elezioni presidenziali, sono come sempre una bella fotografia della situazione economica americana, forse migliore di quella che si trova “at glance” nel sito del BEA, il Bureau of Economic Analysis che pubblica buona parte delle notizie macro USA.

L’economia statunitense è forte, il mercato del lavoro si sta stabilizzando, ma resta forte, l’inflazione converge verso l’obiettivo simmetrico del 2% e, dove sembra ancora un po’ elevata, si rilevano segnali di riduzione. Insomma tutto bene? Niente affatto, la Fed appena entrata nell’era del Trump 2, siede su una bomba a orologeria. Non tanto per le pressioni politiche prevedibili dalla nuova Casa Bianca, quando per il rischio che anche dalla Fed passi l’ineludibile contraddizione che forti dazi alle importazioni dall’estero si traducano in una forte inflazione che poi è la bestia nera degli Stati Uniti, uno dei motivi per cui nonostante un’economia fortissima a livello macro, le famiglie hanno poi votato in massa per Trump.

Fed, il rialzo dei rendimenti non passa inosservato

Anche se formalmente Casa Bianca e Federal Reserve sono indipendenti in pratica si pestano i piedi a vicenda di continuo perché le politiche fiscali dei governi influenzano prezzi e crescita e perché le politiche monetarie della banca centrale influenzano i prezzi di mercato, la domanda, l’economia dei cittadini e dei mutui. Questo vale negli Stati Uniti ancor più che in Europa perché lì la Fed ha la fortuna del doppio mandato che le impone di perseguire non soltanto la stabilità dei prezzi (come la BCE), ma anche il massimo impiego. Così le minute della Fed si concentrano in un fenomeno forte delle ultime settimane, il rialzo dei rendimenti del debito pubblico sovrano statunitense. Il decennale è passato dal 3,61% di metà settembre al 4,27%, dopo punte oltre il 4,45% Lo sgonfiamento relativo è delle ultime ore, ha seguito la pubblicazione delle minute e ha preparato l’inflazione PCE (data all'inizio di questo commento), la preferita dalla stessa FED.

I due panieri, quelli dell’inflazione CPI e PCE sono abbastanza simili, ma ci sono delle differenze (per esempio il CPI pesa le spese di alloggio il doppio del PCE, sono spese importanti che comprendono non solo l’affitto, ma per i proprietari l’equivalente di un affitto potenziale).

Un aumento importante di 60 o addirittura 80 punti base (ossia +0,6% o +0,8%) in meno di tre mesi su cose come i titoli di Stato pesa molto, anche in termini fiscali perché comporta in pratica una maggiore spesa per interessi per gli Stati Uniti, un Paese con un Pil del terzo trimestre solido anche se in rallentamento al 2,8% nel terzo trimestre (dal 3%), ma comunque con un deficit/Pil del 7% e un rapporto debito/Pil del 122,3%

Gli interessi che il mercato chiede sui Treasury decennali Usa sono già da tempo ben superiori a quelli chiesti sui corrispettivi tedeschi (2,17%) o italiani (3,44%). E non è neanche la fetta peggiore del debito perché su quello a 1 mese il Tesoro paga il 4,64% e su quello a 1 anno paga il 4,46%

La FED, l'economia USA e le sfide di Bessent

Per il prossimo segretario del Tesoro Scott Bessent, in arrivo dal suo hedge fund Key Square Group, non sarà un lavoro semplice, ma il problema appare almeno più presente dopo la sua nomina. In campagna il manager ha affermato di avere in mente uno schema 3-3-3. La politica degli ultimi decenni ama le simmetrie e gli spot e in questo caso la tripletta vuol dire, ridurre il deficit al 3% (entro il 2028), portare la crescita del Pil al 3% (tramite deregulation e politiche di crescita, ossia tagli fiscali), aumentare la produzione di energia negli Stati Uniti di 3 milioni di barili al giorno.

Gli Stati Uniti sono già il maggior produttore mondiale di petrolio, dal 2018, nel 2023 hanno prodotto solo di greggio 12,933 milioni di barili al giorno, cui aggiungere 6,43 milioni di gas naturale liquefatto, 1,2 milioni (sempre al giorno) di biocarburanti e ossigenati e un altro milione di barili al giorno di recuperi da raffinazione, per un totale produttivo di 21,691 milioni di barili di petrolio equivalenti al giorno l’anno scorso.

Numeri destinati a crescere perché il “Drill, baby drill” si è consolidato ben prima delle elezioni e al più cerca adesso una ratifica.

Ma non sarà tutto semplice. Già nel gas la sovrapproduzione ha generato in passato dei cali di prezzo, un’inflazione da eccesso di offerta, che per l’Europa sarebbe una manna, ma per il pianeta no. D’altronde anche sul fronte dei prezzi del gas l’America stravince da un pezzo, il prezzo interno Henry Hub Natural Gas spot è di appena 2,2 dollari per BTU, quello europeo e asiatico per il gas naturale liquefatto si dibatte sui 15 dollari. Andando ai prezzi dell’energia per le famiglie per capirci la media in Italia è di 0,45 dollari a kilowattora, in Germania si scende a 0,4, in Francia già si scende a 0,28 e negli Stati Uniti si precipita a 0,16 (e dentro c’è nucleare, carbone etc.). Ma con i consumi crescenti dei server comunque il calo del costo dell’energia è anche per gli Stati Uniti un tema.

Così come è un tema il dollaro. Il Dollar index (che pesa per più del 50% il cambio con l’euro) è cresciuto del 6,4% dai minimi di fine settembre. Il cambio EUR/USD ha perso il 5,8% Oscillazioni da criptovaluta.

Fed, le attese sui tassi (e qualcuno valuta i rischi di inversione di marcia)

Il FedWatch tool che misura le attese del mercato sui tassi di interesse Usa sulla base dei future sui Fed fund a 30 giorni stima il 36,5% di tassi al 4,25% nel meeting del 18 giugno 2025. Significherebbe soltanto due tagli dei tassi in 5 meeting. A fine 2025 le probabilità implicite di mercato danno al 4,0% la quota più alta di probabilità (il 29,2%), ossia solo tre tagli. Ma c’è chi non la pensa così.
UBS di recente ha ribadito la convinzione di 125 punti base di tagli (quindi 5) entro la fine del 2025.

Significa in confronto tassi al 4% negli Stati Uniti ancora fine 2025 mentre in Europa si stima che il tasso d’interesse principale scenda al 2,5% prima dell’estate. Due velocità completamente diverse insomma.

Anche secondo PIMCO c’è ancora spazio per dei tagli ai tassi d’interesse della Fed, ma è significativo che il titolo del report a cui facciamo riferimento sia “Fed, Outlook per il 2025: i rialzi sono ancora improbabili”.

Come a dire che la prospettiva sui tassi alla luce dei dazi previsti dalla nuova presidenza si è già capovolta e c’è chi inizia a interrogarsi non tanto sul ritmo dei tagli, ma sul pericolo di un’inversione di marcia.

Pimco usa rapidamente un rapporto 10:1, per ogni incremento del 10% nei prezzi alle importazioni, si dovrebbe registrare un incremento dell’1% dei prezzi domestici: “sarebbe necessario un aumento di circa 15 punti percentuali del tasso medio effettivo dei dazi effettivi affinché l’inflazione PCE core raggiunga la fascia del 4,0%-5,0%.

Purtroppo il 15% di media è proprio in linea con le promesse del 60% di dazi sulla Cina e del 10% sulle altre importazioni (Dario Perkins di TS Lombard ha stimato un 17% dal 2% di oggi). Ma poi, notiamo, il primo annuncio fatto da Trump è partito da dazi del 25% su Messico e Canada, e solo del 10% sulla Cina, sbaragliando di nuovo le attese.

La questione assume persino tratti pittoreschi con le figure misteriose dei “bond vigilantes”, come a dire gli osservatori di mercato dai portafogli corposi in Treasury che vigilano contro i rischi fiscali peggiori. I recenti corposi rialzi dei rendimenti dei titoli di Stato USA sarebbero proprio questo, un avviso al prossimo inquilino della Casa Bianca.

Se peggiori il già fragile equilibrio fiscale Usa, ti puniremo con rendimenti in crescita, che significa un peso maggiore del debito. In tempi di dedollarizzazione potrebbe essere un pericolo forte, d’altronde il Committee for a Responsible Federal Budget ha stimato un aumento del debito pubblico Usa di 15,5 trilioni di dollari in 10 anni. Partendo dal deficit del 7%

Certo se il Pil grazie al taglio delle tasse sulle imprese e alla deregulation salirà, sarà più facile. Ma con rendimenti del debito pubblico in crescita una parte della liquidità va là e già oggi i multipli di Wall Street sono molto elevati: un P/E di 28,21 per il Dow Jones Industrial Average, un P/E a 24,72 per l’S&P 500, un P/E a 33,15 per il Nasdaq.
Persino il Russell 2000, delle PMI USA, ha un rapporto prezzo utili storicamente elevato a 33,96.

Reggerà ancora?