Strocchi, ecco qualche antidoto alla fuga dei capitali dalle PMI
pubblicato:Si moltiplicano i delisting a Piazza Affari. Il fondatore di Electa Ventures analizza questa fase critica del mercato azionario italiano e propone qualche soluzione
Nel 2024 si sono registrate finora a Piazza Affari soltanto 21 IPO, quasi tutte nel segmento delle piccole quotate EGM, solo SYS-DAT è approdata sullo STAR. I delisting sono stati invece 27 e soprattutto hanno coinvolto masse ben più importanti con nomi di peso come CNH Industrial, Tod’s, Saras, Unipolsai (confluita in Unipol) e IVS. Il Sole 24 Ore calcolava di recente che per Borsa Italiana si sono registrati un miliardo di euro di capitalizzazione in ingresso tramite IPO e 28 miliardi di euro di capitalizzazione in uscita tramite delisting.
Un’emorragia che danneggia il meccanismo di trasmissione virtuoso tra capitali finanziari e risparmio da un lato e PMI dall’altro. Tutte criticità che hanno già portato il legislatore a diversi interventi come il DDL Capitali e l’istituzione del Fondo Nazionale Strategico che dovrebbe essere attivato l’anno prossimo con il supporto di CDP. La mancanza di liquidità sul mercato delle PMI Euronext Growth Market rimane comunque un problema. La sensazione è che la spina dorsale dell’economia italiana fatta di piccole e medie imprese innovative resti senza un valido sostegno del capitale di rischio.
Ne parliamo con Simone Strocchi. Fondatore di ElectaVentures, investitore e advisor strategico di piattaforme di investimento e grandi investitori, consigliere di Assonext, ha seguito storie di successo in Borsa come Sesa, Italian Wine Brands e Magis.
“Una delle maggiori criticità per le PMI di Piazza Affari risiede nella liquidità. I fondi aperti devono rispettare determinati indici di liquidità giornaliera nel portafoglio degli asset in cui investono. Purtroppo molte società dell’EGM sono considerate sotto questo profilo illiquide e quindi fuori dai radar di fondi aperti che, per rispettare la compliance, non possono prendere in considerazioni questi investimenti, anche se poi i fondamentali della singola società sono sani e attraenti.
Così finisce che un soggetto americano o tedesco fa due calcoli e lancia un’opa sulla PMI dell’EGM. L’impresa finisce sotto il controllo straniero, l’acquirente la compra magari a prezzi stracciati, a multipli di EBITDA davvero contenuti anche al lordo del premio d’OPA. Abbiamo visto diversi casi a Milano in cui il mercato sembrava ignorare i fondamentali”.
Gran parte del risparmio italiano finisce spesso negli Stati Uniti o su altri mercati. Le PMI domestiche lamentano la carenza di investimenti dei soggetti istituzionali italiani. Ora però è stato annunciato il nuovo Fondo Nazionale Strategico (FNS) che dovrebbe fare da volano di investimento, che ne pensa?
“E’ sicuramente un’iniziativa positiva, anche se per giudicare questo nuovo strumento bisognerà aspettare la pubblicazione del suo regolamento e l’effettiva gemmazione di una pluralità di fondi chiusi dedicati al “private investment in public equity”. Le risorse in gioco sembrano comunque ridotte. Parliamo di un 49% sottoscritto da CDP con 350 milioni di euro. La potenza di fuoco complessiva dovrebbe essere quindi di 700 milioni, forse un miliardo, con un “ticket” ripartito su una decina di nuovi fondi. Serve comunque di più, anche perché l’industria viene da un contesto sfavorevole. I tassi d’interesse elevati hanno sviluppato nei fixed income un concorrente molto forte che ha distratto risorse dal finanziamento delle imprese italiane. C’è stata poi la scadenza dei PIR dopo 5 anni che ha portato molti investitori a cogliere il beneficio fiscale delle operazioni, senza però riportare risorse nelle PMI quotate di Piazza Affari. La nuova fase di riduzione dei tassi d’interesse dovrebbe creare nuovi spunti, ma ci sono molte incertezze, compresa la variabile geopolitica e il rischio associato a possibili nuovi dazi americani.
In questo contesto occorre incentivare degli approcci di medio e lungo periodo. Il rapporto fra capitalizzazione di Borsa e Pil è ancora troppo basso in Italia. Negli Stati Uniti siamo sopra il 150%, in Francia poco sotto il 130% del Pil, in Italia siamo sul 36% circa. Serve quindi un cambiamento di approccio del mondo del risparmio, a partire dai primari operatori finanziari”.
Spesso i soggetti istituzionali che altrove investono nell’industria domestica trascurano le piccole e medie imprese italiane. I numeri dell’EGM sembrano confermare questa valutazione. Come mai?
“C’è il problema della liquidità che dicevo, i grandi fondi aperti accessibili agli investitori retail vogliono avere asset liquidi e liquidabili in breve tempo, anche se con performance inferiori a quelle che si otterrebbero investendo in una PMI innovativa. Il gestore compra le azioni di Generali o Amazon per esempio, perché comunque sa che potrà liquidarle in breve. Nel suo portafoglio il titolo di una PMI dell’EGM con flottante sotto i 100 milioni risulta illiquido e indigesto alle regole di compliance che sono orientate a livello europeo.
Se poi prendiamo una cassa di risparmio o un fondo previdenziale di categoria, spesso delega ad un soggetto internazionale la gestione degli asset. Se ingaggio Rothschild, è naturale che poi una fetta importante del portafoglio sia negli Stati Uniti. Ma succede a tutti i livelli. Occorrerebbe strutturare un approccio da fondo chiuso che possa scalare le dimensioni delle piccole su una dimensione adeguata agli investimenti di mercato degli istituzionali. Si potrebbe ottenere uno strumento pregevole anche per la differenziazione del rischio tra i vari settori. Ci sono già in Italia alcuni soggetti specializzati nell’investimento in PMI quotate, ma non è ancora sufficiente a valorizzare adeguatamente il settore”.
È stato prorogato il bonus nazionale IPO che permette di portare a credito di imposta le spese di consulenza per la quotazione fino a 500 mila euro. Esiste anche la Quota Lombardia che incentiva le quotazioni con agevolazioni fino a 600 mila euro. Non sono strumenti utili?
“Incoraggiano sicuramente le PMI alla quotazione e producono vantaggi anche per gli advisor, ma rischia di essere uno stimolo ad un approccio troppo granulare e frammentato per il mercato EGM nella sua interezza. Rischiamo di avere tante piccole quotazioni e nessuna realtà capace di fare scala davvero su risorse finanziarie e dimensioni d’impresa.
Sarei favorevole ad allargare questi incentivi anche alle acquisizioni delle società quotate. Se una PMI dell’EGM acquisisce un’altra impresa con un’operazione straordinaria che ne incrementa il consolidato, diamole un vantaggio fiscale per incoraggiare anche la crescita dimensionale. Rivedrei poi la stessa definizione europea di PMI: oggi è basata sul numero dei dipendenti, sul fatturato, sul patrimonio. Questo rischia di penalizzare molte imprese italiane di trasformazione. Sarei più favorevole a dei cluster settoriali di definizione o a parametri basati sulla redditività”.
Lei ha detto che bisognerebbe attirare anche l’attenzione delle grandi holding di famiglia italiane per vincere la partita del finanziamento delle piccole imprese italiane. È una risorsa trascurata?
“Senza dubbio, basterebbe qualche millesimo del patrimonio delle grandi holding italiane per dare un impulso decisivo alle storie di piccola e media impresa italiana. Ci sono grandi capitali immobilizzati nella proprietà o affidati a gestioni internazionali che sono figli di storie d’impresa che nel secolo scorso fecero quello che oggi fanno tante aziende di nicchia che si affacciano al mercato dei capitali. Se si riuscisse a coinvolgere questi patrimoni in veicoli di investimento focalizzati nelle small cap, realizzeremmo un passaggio industriale strategico alimentando le energie con maggior spunto di crescita.
La chiave in questa fase deve essere quella di creare delle piattaforme di investimento di dimensioni e impostazione adeguate a sostenere investimenti nelle PMI italiane. Si possono creare dei fondi chiusi che realizzino l’investimento a scadenza (senza ansia di benchmarking giornaliero e obblighi di liquidita di NAV), si possono immaginare degli incentivi alle fusioni e aggregazioni o immaginare strumenti finanziari settoriali o di filiera, si può immaginare di applicare tutti questi strumenti insieme. Bisogna comunque progettare per il lungo periodo, altrimenti continueremo a scontare un indirizzo dei risparmi italiani verso investimenti in large cap non nazionali e molte piccole eccellenze italiane finiranno per essere acquistate da chi altrove ha guardato più lontano di noi”.