Petrolio, la guerra commerciale USA-Cina dà un altro spintone ai prezzi

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Quotazioni in calo del 30% dai massimi di gennaio. Un segnale di allarme per l’economia. I dazi fanno male al barile e anche l’Opec+ si trova in una situazione difficile

Petrolio, la guerra commerciale USA-Cina dà un altro spintone ai prezzi

L’escalation della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina manda ancora più in basso le quotazioni del petrolio greggio, da tempo sotto pressione, anche per il timore di una recessione negli Stati Uniti.

In queste ore il future sul Brent segna una flessione dell’1,3% a 60,91 dollari al barile dopo alcuni approfondimenti.
Il WTI passa di mano a 57,13 dollari al barile, con uno svantaggio di 0,72 punti percentuali sul riferimento, ma dopo affondi preoccupanti.

I minimi odierni del Brent a 60,13 dollari sono su livelli che non si vedevano dal 2021 e confermano l’estrema debolezza dell’oro nero in questa fase di mercato.
Il WTI ha toccato un bottom a 56,35 dollari, anche in questo si torna ai prezzi di quattro anni fa.
Dai massimi di metà gennaio i prezzi del petrolio, sia quelli del WTI ‘americano’, che quelli del ‘Brent’, hanno perso circa il 30%

Il petrolio è da sempre un termometro di primo piano per valutare lo stato di salute dell’economia e il sentiment dei mercati, con un crollo del 30% in poche settimane non si può che registrare un segnale di allarme deciso per l’intera economia globale.

Petrolio, lo scontro commerciale Usa-Cina pesa

A scatenare le vendite, come anticipato, contribuisce oggi soprattutto lo scontro tra Washington e Beijing. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha alzato al 104% i dazi sull’importazioni di merci cinesi, dopo che la Repubblica Popolare aveva annunciato dazi del 34% in risposta all’ultima stretta degli Stati Uniti sull’import cinese.

Lo scenario è in costante evoluzione e la Cina fatica a mantenere una posizione di equilibrio e ad aprire un canale di negoziato con il partner commerciale d’oltre Pacifico. La Cina ha un interscambio con gli Stati Uniti di circa 600 miliardi di dollari, 440 miliardi sono le importazioni Usa e 144 miliardi le importazioni della Cina, ma le flotte di portacontainer e le filiere produttive e commerciali che alimentano non si possono certo riprogettare con un colpo di penna.

La Cina ha ribadito la condanna delle misure protezionistiche statunitensi, che bolla come atti di unilateralismo e protezionismo, ma non ha chiuso la porta all’avvio di un tavolo negoziale. L’agenzia di stampa cinese Xinhua News ha riportato un white paper dello State Council Information Office che difende le contromisure della Repubblica Popolare in difesa dei propri interessi nazionali, ma afferma che le relazioni economiche e commerciali tra i due Paesi sono di reciproco beneficio e “win-win in nature”.
E’ cruciale nel rispetto degli interessi primari e delle maggiori preoccupazioni di entrambe le parti trovare un soluzioni appropriate a risolvere le criticità tramite il dialogo e la consultazione”, riporta il documento.

Petrolio, pessimismo tra gli analisti

Oggi però tra gli analisti di mercato prevale il pessimismo. Il deterioramento dei rapporti tra le due superpotenze pone a rischio infatti non soltanto l’interscambio tra i due che passa dalle navi portacontainer alimentate con derivati del petrolio, ma anche l’intera crescita globale, che è poi il fattore cardine della domanda di petrolio.

Anche il crescente rischio di una recessione negli Stati Uniti minaccia le quotazioni del greggio, così i trader continuano a vendere.

Lunedì Goldman Sachs si chiedeva in un report sul petrolio: “Fino a che punto potranno scendere i prezzi del petrolio?”. In quel contesto la banca d’affari Usa abbassava le stime per i prezzi di fine 2025 del Brent a 60 dollari al barile e quelle del WTI a 53 dollari circa.

Ma anche questa sforbiciata dei target era sottoposta ad alcuni assunti ottimistici, a partire dall’ipotesi che gli Stati Uniti evitassero una recessione riducendo in maniera rilevante i dazi che scattano oggi 9 aprile.

Tra le ipotesi ‘ottimistiche’ c’era anche un aumento della produzione dell’Opec+ contenuta nei prossimi mesi, meno di 150 mila barili in più al mese a giugno e luglio, dopo i 411 mila barili di aumento dell’output annunciato a sorpresa a maggio.

Fra le zavorre del petrolio greggio c’è stata infatti anche l’accelerazione della produzione del cartello dei produttori guidato da Arabia Saudita e Russia, che, immettendo più petrolio del previsto sul mercato, ne ha appesantito le quotazioni.

Per Riyad e per Mosca, però, le entrate derivanti dal petrolio greggio sono essenziali. Un articolo di Reuters sottolinea - per esempio - che l'Arabia Saudita rischia di dover rivedere alcuni piani di investimento per via dei minori guadagni derivanti dall'oil e del previsto calo dei dividendi Saudi Aramco di un terzo. Il tutto in un clima di ulteriori pressioni di Trump anche per investimenti negli Stati Uniti. Uno scenario che contribuisce a spiegare le recente mosse dell'Opec+.

Ma nel suo report Goldman Sachs vagliava anche scenari peggiori. Nell’ipotesi di una tipica recessione Usa i prezzi del Brent erano visti atterrare da 58 dollari a fine 2025 a 50 dollari a fine 2026.
Il più grave scenario di un calo del Prodotto interno lordo globale per Goldman Sachs potrebbe invece mandare i prezzi del Brent ‘europeo’ da 53 dollari alla fine di quest’anno a 45 a fine 2026.
C’è persino una quadro ancora più fosco in cui l’Opec rimette per intero la propria produzione sul mercato, aggiungendo all’output globale di greggio 2,2 milioni di barili al giorno e mandando i prezzi ko, a soli 46 dollari alla fine di quest’anno fino a meno di 40 dollari al barile alla fine del prossimo anno.
Questa ultima eventualità è ritenuta meno probabile, comporterebbe in due anni un dimezzamento dei prezzi del Brent dai livelli di un anno fa.
Tutti gli scenari di GS indicano però che per il petrolio c’è ancora spazio per scendere.

Gli operatori sono comunque pessimisti e lo dimostrano anche altri indicatori di mercato, come la struttura dei prezzi dei future sul Brent che è in backwardation, ossia sconta nelle scadenze fino al giugno 2026 prezzi mese per mese più bassi di quelli di oggi: è l’indicazione chiara che il mercato si aspetta un calo ulteriore dei prezzi. I future sul Brent dell’ICE indicano un prezzo di 59,7 dollari al barile a dicembre di quest’anno.

D’altronde è abbastanza chiaro: l’arroventarsi dello scontro commerciale tra Stati Uniti e Cina, i timori di impatti forti dei dazi sul Pil degli States e sul Pil mondiale, i rischi per gli scambi mondiali e di shock lungo tutta la catena di valore del greggio, i recenti maggiori rilasci di produzione dell’Opec+ in un clima di incertezza costituiscono tutti un mix che qualcuno ha definito un “cocktail tossico” per le quotazioni del petrolio greggio.

Semplificando al massimo, quando la crescita economica globale trema, lo fanno anche i prezzi del petrolio.