Pensioni: ora il governo chiede di restare al lavoro

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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I rigori dell'inverno demografico spingono il governo all'austerity. Troppe uscite anticipate: si doveva andare in pensione a 67 anni e la media è 64,2 anni. Quindi giro di vite, statali al lavoro fino a 70 anni e conferma di Quota 103, Opzione Donna e Ape Sociale. Ecco le prospettive previdenziali per il 2025

Pensioni: ora il governo chiede di restare al lavoro

L’età chiave per vincere le elezioni in Italia parte dai 45 anni, quindi il tema delle pensioni è sempre attuale. Dal punto di vista politico, sociale ed economico.

I numeri sono testardi si sa e quindi se si vuole tenere in piedi il sistema e magari convincere l'Europa che i conti sono in regola, bisogna fare sacrifici.

D'altronde nei prossimi anni entrerà nel mondo del lavoro un nuovo lavoratore per ogni due che andranno in pensione.

Inoltre la legge permette la pensione a 67 anni, ma poi la media italiana è a 64,2 anni e i conti non tornano.

Qualcosa bisognava fare, anche a costo di tradire qualche promessina elettorale.

Allarme Pensioni, nei prossimi anni un nuovo lavoratore per ogni due pensionati

In Italia ci sono circa 13,9 milioni di persone che lavorano con almeno 50 anni di età (il 40% del totale; erano il 21,5% nel 2004). Allo stesso tempo i bambini, con età compresa tra 0 e 14 anni, sono 7,2 milioni, quindi circa la metà dei ultracinquantenni al lavoro.

Questo significa che nei prossimi anni ogni due pensionati ci sarà soltanto una persona che entra nel mondo del lavoro (al netto dei flussi migratori).

Se non si corre ai ripari la macchina previdenziale rischia di incepparsi e affondare conti pubblici e stato sociale. Non succederà subito, ma per dirigere il transatlantico bisogna manovrare per tempo. E il governo ci prova.

In questa ottica vanno infatti lette le ultime misure che puntano a mantenere più a lungo i lavoratori sul posto e a posticipare la pensione. Una lampante contraddizione con gli strali sulla Fornero, che per certi versi era più morbida dell’assetto attuale, ma anche una necessità strutturale dell’Italia, soprattutto alla luce del controllo dei conti che le nuove regole Ue impongono.

E’ una presa d’atto della realtà, anche se non sbandierata come altre misure, il piano strutturale di Bilancio, ossia lo schema della prossima finanziaria per il 2025 lo dice chiaramente:

“L’allungamento della vita lavorativa costituisce una necessità, condivisa da quasi tutti i Paesi avanzati, per la sostenibilità dei sistemi previdenziali. Sono allo studio del Governo incentivi alla permanenza nel mercato del lavoro.

Al fine di assicurare una partecipazione attiva al mercato del lavoro, in linea con le tendenze demografiche, il Governo si impegna a introdurre modifiche sui criteri di accesso al pensionamento".

Inoltre, si prevede di rivedere e superare l'obbligatorietà di ingresso in quiescenza dei dipendenti pubblici definendo soluzioni che consentano un allungamento della vita lavorativa, permettendo alla PA di trattenere le risorse ad elevato know-how e di conseguire un efficace passaggio di consegne.”

Che vuol dire?

La materia è complessa e qualche numero qua e là può aiutare a capire.

Nell’ultimo anno i lavoratori italiani sono cresciuti e la disoccupazione ad agosto è scesa sul minimo del 6,2%, un livello che non si vedeva dal 2007!
Soprattutto dal pre-pandemia è cresciuto il numero di lavoratori italiani da 23 a poco più di 24 milioni lavoratori secondo l’Istat ad agosto.

Purtroppo però, proprio per la questione demografica diminuisce costantemente la percentuale di lavoratori sul totale della popolazione. Ad agosto ci sono infatti anche 1,58 milioni di disoccupati in Italia e ben 12,46 milioni di inattivi tra 15 e 64 anni, ma il vero problema è che la popolazione in età lavorativa complessivamente decresce per questioni demografiche, gli ultra 64enni aumentano insomma e i giovani diminuiscono. Per capirsi la popolazione in età lavorativa ha raggiunto un record di 39,1 milioni di persone nel 2022, ma oggi è scesa a 38,1 milioni di persone circa: significa un milione di persone in meno tra i 15 e i 64 anni in due anni!

Lavorano più persone di uno o due anni fa, ma la fetta della popolazione che potrebbe lavorare è sempre più piccola e quindi c’è il rischio che l’equilibrio tra i lavoratori e pensionati (che aumentano) si rompa.

Pensione, quanto costa allo stato e chi paga i contributi

Passiamo ai soldi.

Nel 2023 la spesa per le pensioni è cresciuta a 347 miliardi di euro, sono tanti il 16,6% del Pil a prezzi correnti. Sono 16,2 milioni i pensionati italiani, la media dell'età è di 64,2 anni, decisamente inferiore ai requisiti teorici dei 67 anni, decisamente nel periodo sbagliato. Quasi tutta la spesa in pensioni è erogata dall’INPS (338 mld) mentre l’8% del totale è in prestazioni assistenziali come invalidi civili e assegni sociali. La rivalutazione degli assegni sulla base dell’inflazione l’anno scorso ha permesso un miglioramento medio dell’importo lordo mensile delle prestazioni del 7,1%.

Per capire ancora meglio i dipendenti reggono la baracca italiana, come noto. Le entrate totali italiane del 2023 sono state circa 568,5 miliardi. L’Irpef da sola ne ha coperti 221,5 miliardi, di cui 99,9 miliardi di Irpef dei dipendenti privati e 88,9 miliardi dei dipendenti pubblici. Solo 13,17 miliardi dall’Irpef degli autonomi.
Le imprese con l’Ires ci hanno messo altri 51,75 miliardi e l’IVA ci ha messo 174,8 miliardi.

Dal 2016 al 2023 i dipendenti italiani totali registrati dall’INPS sono passati da 15,4 a 17,52 milioni. Quelli che versano contributi e sono assicurati con l’INPS sono circa 21,77 milioni (di più di quelli che lavorano per vari motivi), contro i 4,9 milioni di “indipendenti". Circa quattro quinti dei dipendenti sono nel settore privato, i dipendenti pubblici sono circa 3,6 milioni (in termini di assicurati INPS).

I dipendenti pubblici restano però una fetta elettorale importante, anche perché in Italia votano solo 25 milioni di persone su un totale di 51,2 milioni elettori potenziali.

Pensioni, per i dipendenti pubblici l'abolizione dell'uscita forzata (ossia si resta al lavoro fino a 70 anni)

Per i dipendenti pubblici una delle novità più importanti: l’abolizione dell’uscita forzata. In pratica una norma del 2013 impone ai dipendenti pubblici di lasciare il posto di lavoro al massimo a 67 anni. L’idea era di ridurre i costi della Pubblica amministrazione e favorire il ricambio generazionale, ma non sembra funzionare: allo Stato manca qualcosa come il 30% del personale necessario e nel frattempo si sono ridotti i contributi, anche perché poi si è registrato un esodo (cui non sono estranei gli effetti della pandemia).

Oggi i dipendenti pubblici possono andare in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi se hanno raggiunto i 65 anni o, in alternativa pensionarsi a 67 anni.

In realtà già da quest’anno la Quota 103 (41 anni di contributi+62 anni di età) è stata rivista con una finestra mobile da 7 a 9 mesi dopo la data di maturazione dei requisiti della 103. Si tratta già nel 2024 di un peggioramento per i pensionandi sulle condizioni precedenti, non solo in termini di tempo, ma soprattutto in termini di ricalcolo contributivo dell’assegno che perde almeno 180 euro (il 10%) e ha un tetto a 1.750 netti fino ai 67 anni. Ragioni potenti dei tanti rinvii dal 2024 al 2025 della pensione.

Il quadro però potrebbe presto anche peggiorare per i futuri pensionati del settore pubblico. Il governo starebbe infatti pensando di alzare fino a 70 anni la soglia allegandole il ruolo di tutor per i giovani negli ultimi anni di vita professionale. Un argine preventivo di 3 anni alla previsione di tantissimi dipendenti pubblici in uscita l’anno prossimo per il raggiungimento di 67 anni di età.

L’equilibrio con i conti pubblici è complicato, ma il ricambio generazionale nella PA è fondamentale e strategico, non solo per la tenuta dei servizi esistenti, ma anche per le crescenti esigenze del PNRR. In questo contesto si devono leggere le cifre fornite poco tempo fa dal ministro per la Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo:

“Le assunzioni sono state 170 mila nel 2023 e quest'anno abbiamo già bandito oltre 13 mila concorsi, per un totale di circa 288 mila posti a bando". 

Ed è anche vero che 5,3 dipendenti pubblici ogni 100 abitanti è un rapporto più basso che in Germania o in Francia o in Germania.

Pensioni, l'opzione donna sempre più stretta

Ma torniamo alle pensioni. Già i nuovi criteri per la quota 103 la situazione era peggiorata, ma hanno rabbuiato il quadro anche altre misure e non da oggi. L’Opzione donna ha visto restringersi i requisiti a 61 anni con 35 anni di contributi e gli sconti per le madri vengono bilanciati dal sistema di calcolo contributivo.

L’introduzione di opzione donna nel 2004 vedeva 35 anni di contributi sufficienti per la pensione a 57 anni per dipendenti pubbliche o private e a 58 anni per le autonome. Anche se non è ancora sicura la riconferma del provvedimento, di certo negli anni la platea delle beneficiarie si è ristretta.

Pensioni, l'Ape sociale verso la riconferma

La terza misura previdenziale in discussione è l’Ape Sociale. Si tratta di un’uscita anticipata per i lavoratori fragili, dai disoccupati con 30 anni di contributi ai caregiver, agli invalidi almeno al 74%, ai lavori gravosi. Consiste in un anticipo pensionistico (”un assegno ponte”) che si ottiene a 63 anni e cinque mesi di età. È forse la norma di più sicura riconferma, anche perché le domande accolte in 7 anni di vita dal 2017 al 2023 sono state 113.800 (su meno 166 mila presentate), per due terzi da parte di disoccupati. Numeri gestibili.

Pensioni, complessivamente la situazione peggiora

Tutte e tre le misure però: Quota 103, Opzione Donna e Ape sociale sono considerate dalla cronaca prossime alla riconferma. Si aggiunge il blocco dell'uscita forzata, ossia i 70 anni per i dipendenti pubblici (non obbligatori, ma spesso convenienti).

Il quadro complessivo è quello di una diga contro un esodo di massa dal lavoro pubblico che fa sempre più fatica. Serve anche mantenere persone al lavoro a pagare contributi, per l'equilibrio del sistema, e bisogna poi riportare il deficit debito/Pil sotto 3% entro il 2026.

E i giovani? A loro si pensa soprattutto con una norma che mette una parte del TFR da subito nella pensione integrativa (una quota obbligatoria), un salvagente per un assegno previdenziale sempre più evanescente con l'allungamento dell'orizzonte di previsione. Ma questo è un altro discorso