Cosa ha detto ieri la Fed

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Rivista al rialzo l'attesa sull'inflazione e al ribasso quella sul Pil. Il quantitative tightening finisce sostanzialmente in soffitta e i Treasury ringraziano. I tassi restano dove sono e Trump aumenta la pressione, ma lo scenario di due tagli entro quest'anno rimane in piedi e Wall Street festeggia

Cosa ha detto ieri la Fed

L’economia degli Stati Uniti rallenta, ma resta solida. Più che di un’ammissione, si tratta di una presa d’atto formalizzata nei documenti a latere del Summary of Economic Projections che mette in fila i parametri previsionali della Fed e conferma un leggero peggioramento del quadro che serve a una cosa principalmente: prendere tempo su eventuali tagli dei tassi perché la politica della nuova amministrazione Trump rischia sfracelli sul fronte dei prezzi e dell’economia.

Non la racconta così ovviamente Jerome Powell, il numero della Federal Reserve statunitense, ma gli indizi sulla via di questa dorsale esegetica sono molteplici.

La Fed, Trump e l'incertezza

Trade, Immigration, Fiscal Policy and Regulation”, la politica commerciale (leggi dazi), l’immigrazione (leggi rimpatrio forzoso di ampie masse di manodopera immigrata a basso costo), la politica fiscale (leggi taglio dell’amministrazione pubblica nel tentativo di ridurre un deficit fuori controllo), la regolamentazione (leggi la promessa deregulation delle leggi sull’impresa Usa non ancora giunta ad un esito concreto).

Sono tutti fattori potenzialmente inflazionistici, i dazi rischiano di rompere le catene di approvvigionamento globale e non è detto, secondo diversi economisti, che i proventi fiscali che porteranno nell’Erario Usa bilancino la prevedibile perdita di competitività di molte imprese e i prevedibili impatti sui prezzi di manufatti e prodotti made in Usa.

I rimpatri (“deportation”), sottraendo all’economia a stelle e strisce una forza lavoro economica di cui ha bisogno, rischiano di rinfocolare la dinamica inflazionistica dei salari e comprimere il mercato del lavoro (senza considerare le questioni morali).

La politica fiscale di forte riduzione dei costi della cosa pubblica, potrebbe trascinare al rialzo i già molto elevati costi di servizi essenziali su cui diverse famiglie americane contano, comprimendo il risparmio e la propensione al consumo, come già diversi indicatori segnalano.

Le grandi piattaforme digitali globali hanno costruito su business trasversali alle tradizionali categorie giuridiche le loro fortune contemporanee e Elon Musk, che pure anche a grossi finanziamenti pubblici deve buona parte delle fortune della Tesla, conosce bene le regole di questo gioco, così non ci sono ancora numeri ufficiali sui suoi obiettivi e risultati nella “sforbiciata” agli uffici pubblici.

Il DOGE che dirige punta al taglio 1.000 miliardi di dollari di spesa pubblica e ha dichiarato di recente di avere già effettuato “tagli di costo” pari a 115 miliardi di dollari. Il data analyst Brian Banks citato da Newsweek è però riuscito a tracciarne soltanto 8,6 miliardi di dollari, meno di un decimo. Anche l’Associated Press fa fatica a tracciare i tagli di Musk, il DOGE vorrebbe sforbiciare tutte le nuove posizioni, ossia i lavoratori con meno di un anno di anzianità che sono potenzialmente circa 220 mila. Secondo la CNBC a febbraio i dipendenti pubblici Usa licenziati sono stati 172.017, di cui oltre un terzo attribuibili al DOGE di Musk, 62.242. E’ chiaro che con queste cifre la questione diventa anche macroeconomica, anche se molti casi, come quello dell’USAID, sono bloccati o contrastati in Tribunale. Ma l'altra grande questione è riportare sotto controllo il budget Usa che marcia da tempo con disavanzi da economia di guerra e registra una dedollarizzazione globale che mina il più grande pilastro della finanza a stelle e strisce: il biglietto verde.

Fed, stime più fosche, ma il messaggio è rassicurante

Ma torniamo alla Fed: ieri ha abbassato le stime sul Pil 2025 degli Stati Uniti dal 2,1 all’1,7%, un taglio di ben 40 punti base, che significa grosso modo 120 miliardi di dollari. La dinamica del Pil è stata limata per tutto il triennio, dal +2,0% all’,18% nel 2026, dal +1,9% all’1,8% nel 2027.

Al contempo il tasso di disoccupazione è stato rivisto al rialzo per quest’anno dal 4,3% della previsione di dicembre al 4,4%, mentre resta al 4,3% previsionale nel 2026 e nel 2027. E’ un dato molto importante, perché come noto la Fed (a differenza della Bce) ha un doppio mandato di controllo dei prezzi e piena occupazione. Come riportato ieri la disoccupazione statunitense a febbraio è salita al 4,1% (che significa 7,1 milioni di disoccupati), non siamo sui record low degli anni passati, ma sono comunque  rimane livelli fisiologici e anche il al 4,3% previsto a fine anno dalla Fed è compatibile con l’obiettivo della “piena occupazione”.

Anche i salari mostrano un calo, il dato di febbraio dei nofarm payroll mostra un incremento del 4,0% in un anno con una crescita dello 0,3% nel mese a 35,93 dollari l’ora. Ieri Powell ha dichiarato esplicitamente che i salari stanno crescendo più velocemente dell’inflazione e a un ritmo più sostenibile di quello della prima ripresa dalla pandemia. “Il mercato del lavoro non è una fonte di pressioni inflazionistiche significative”, ha chiosato, quindi l’attenzione andrà sul resto.

E il resto preoccupa un po’ di più. L’inflazione PCE, la preferita della Fed, è stata rivista al rialzo: dal 2,5% al 2,7%, per la complessiva nel 2025, e dal 2,1 al 2,2% nel 2026. L’obiettivo del 2% è confermato nel 2027. L’inflazione PCE core (senza energia e alimentari) è stata rivista dal 2,5 al 2,8% nel 2025 e mantenuta al 2,2% nel 2026 e al 2% nel 2027.

Appare chiaro che la convergenza dei prezzi verso l’obiettivo dei due punti è rinviata soprattutto all’anno prossimo. Gli ultimi dati ufficiali sono del 28 febbraio scorso: a gennaio la PCE complessiva è scesa al 2,5%, interrompendo l’ascesa in corso dallo scorso ottobre che aveva toccato il 2,6% a dicembre. L’inflazione PCE core è ancora molto elevata, ma a gennaio ha registrato una bella frenata dal 2,9% al 2,6% e anche l’inflazione dei servizi è calata nel mese al 3,4% dal 3,9% precedente. Anche la meno seguita inflazione CPI di febbraio è scesa dal 3,0% precedente al 2,8% nell’ultima rilevazione del 12 marzo e la core è calata al 3,1%, sui livelli più bassi dall’aprile 2021.

Fed, quei puntini rassicuranti che sono piaciuti a Wall Street

Ma uno dei piatti forte del menù di ieri alla Fed è stato come sempre la tabella dei dot plot: la distribuzione dei puntini che rappresentano le previsioni sui tassi dei membri del FOMC, il direttivo che decide sui tassi, ha mantenuto un’assoluta prevalenza del livello dei tassi tra il 3,75% e il 4,0% per il 2025, ossia l’orientamento a due tagli dei tassi d’interesse quest’anno, ma a dicembre 10 membri erano su questo livello, poi quattro sotto e quattro sopra, adesso siamo a 9 membri che li tengono al 4%, 8 sopra e 2 sotto. Cresce quindi la probabilità che i tagli si riducano a uno soltanto, è ancora minoritaria, ma molto più consistente.

Flette da 14 a 11 il numero dei membri del FOMC che si aspetta almeno due tagli dai tassi quest’anno, ma lo scenario di un taglio a giugno e di un altro alla fine dell’anno rimane sostanzialmente in piedi e questo piace a Wall Street che temeva notizie peggiori.

Fed, il quantitative easing (quasi) finito, spunti sui Treasury

C’è poi almeno un altro annuncio importante fatto dalla banca centrale a stelle e strisce. Il Committee rallenterà il ritmo di riduzione del bilancio, ossia dei titoli in portafoglio, riducendo il tetto ai rimborsi mensili da 25 a 5 miliardi di dollari sui Treasury, mentre sul debito dei dipartimenti pubblici e sui titoli garantiti da mutui resterà un tetto ai rimborsi mensili di 35 miliardi di dollari.

In poche parole continua la riduzione del bilancio della Fed, ma a un ritmo più lento.
Dai quasi 9 trilioni di dollari della primavera del 2022 sono stati tagliati oltre 2 trilioni di dollari di portafoglio federale e si cominciano a vedere segnali di contrazione in un mercato monetario comunque ancora abbondante.

Lo segnalano per esempio la forte contrazione del mercato overnight dei repo che si è ridotto dai 2,5 trilioni di fine 2022 a circa 200 miliardi (praticamente si è azzerato) mentre sono cresciuti a circa 3,25 trilioni di dollari le riserve bancarie istituzionali.

Nell’ultimo anno sono cresciuti i depositi presso tutte le banche commerciali a quasi 18 trilioni di dollari, così come i prestiti al consumo USA (1000 miliardi di dollari) due dati non necessariamente positivi, visto che spesso le recessioni economiche Usa sono giunte in fasi di picco di questi ultimi due valori.

Ma questa è già letteratura e i mercati sono piuttosto sintetici che narrativi.

Ieri la Fed ha ribadito che non ha fretta di tagliare ancora i tassi d’interesse e ha fatto riferimento anche ai possibili impatti delle politiche della nuova amministrazione, pur affermando che l'impatto dei dazi è difficile da misurare.

Donald Trump ha risposto con l’esplicita richiesta di un taglio dei tassi e ha inneggiato al prossimo 2 aprile, quando scatteranno nuovi dazi anche sull’Italia e l’Europa (ma le trattative fervono).

Sulla carta la Casa Bianca non può dirigere legalmente la politica monetaria, ma quello tra governi e banche centrali è sempre un equilibrio di separazione delle rispettive competenze assai fragile.

Intanto Washington incassa un’apertura di credito dalla Fed che, portando a scadenza d’ora in poi solo 5 miliardi di dollari di Treasury invece che 35 miliardi in pratica sosterrà il mercato dei titoli di Stato Usa: il Tesoro a stelle e strisce ringrazia e infatti i rendimenti sono scesi.

Lo evidenziano bene, tra gli altri James Knightley, Chief International Economist US, Padhraic Garvey, CFA Regional Head of Research Americas e Francesco Pesole, FX Strategist di ING che hanno sottolineato come il quantitative tightening, la riduzione del  bilancio, sia praticamente finito e che la Fed diventa un maggiore acquirente netto di Treasury. Con un tetto ridotto a 5 miliardi, praticamente nullo in proporzione, la Fed ha le mani libere per reinvestire lungo tutta la curva dei rendimenti del debito pubblico USA.

Con Pil in calo e inflazione in crescita lo scenario di una stagflazione USA si riavvicina, ma sostanzialmente il messaggio della Fed di ieri è stato che tutto rimane ancora sotto controllo. Non c’è fretta.

E Wall Street festeggia, ieri ha chiuso con lauti guadagni: Dow Jones +0,92%, S&P 500 +1,08% e Nasdaq Composite +1,41%. Qualcuno già scommette su tre tagli invece di due quest’anno. I future a ridosso dell’Opening Bell di oggi sono più prudenti e ritracciano parte dei guadagni di ieri. I mercati rielaborano.

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