Campari cambia il CEO dopo cinque mesi

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Sempre più in crisi la governance del gruppo, che sconta anche un repricing di settore. Il titolo ha perso più del 45% dal giugno 2023. I multipli stabili, ma non economici non aiutano nella delicata fase di acquisizione di Courvoisier, dopo Fantacchiotti toccherà a qualcun altro prendere l'ingombrante eredità di Kunze-Concewitz, che però guiderà la seconda successione in 5 mesi. Ecco il punto della situazione

Campari cambia il CEO dopo cinque mesi

La crisi di Campari continua. Con il titolo che perde quasi il 45% sui massimi dello scorso giugno 2023 e oggi segna un pesante -6,21% a 7,07 euro, è un fuggi fuggi degli azionisti.

D’altronde le dimissioni del CEO Matteo Fantacchiotti, per ragioni personali, dopo appena cinque mesi, restituiscono l’immagine di una grave crisi di governance dopo l’addio dello storico CEO Bob-Kunze Concewitz.

La nomina di Paolo Marchesini (già CFO del gruppo) e Fabio Di Fede (già direttore operativo e co-amministratore delegato insieme a Fantacchiotti e Marchesini) come interim co-CEO, la costituzione di un Comitato di transizione della Leadership presieduto dallo stesso Kunze-Concewitz per la selezione di una nuova guida della compagnia degli spirit trasmettono chiaramente la sensazione di un passaggio disordinato e al buio. Proprio quello che il mercato non vuole.

Il nuovo Comitato dovrà scegliere (insieme al Comitato Remunerazione e Nomine) il prossimo Chief Executive Officer di Campari e rassicurare un mercato ormai in fuga dalla società di casa Garavoglia.

Il presidente Luca Garavoglia, insieme al nuovo vicepresidente Jean-Marie Laborde supporterà un processo che dovrà essere al contempo rapido ed efficace.

Di recente voci su un intervento dello stesso Fantacchiotti in una investor call negli Stati Uniti che confermava, sul settore negli States senza riferimenti specifici a Campari, una debolezza statunitense della domanda di spirit che dal primo semestre 2023 si trasmetteva al terzo trimestre, avevano penalizzato il titolo con vendite importanti che avevano lasciato intravedere un certo nervosismo dei mercati.

Neanche la conferma dell’acquisizione del 14,6% di Capevin Holdings (la sudafricana che controlla i whisky single malt Bunnahabhain, Deanston, Tobermory e Ledaig, e i whisky blended Scottish Leader e Black Bottle) aveva rassicurato gli operatori.

Campari, l’andamento del primo semestre, i brand e le geografie del gruppo

In realtà il pessimismo sul titolo si è radicato da tempo, viste le performance dell’ultimo anno e viste le reazioni ai dati del primo semestre pubblicati a fine luglio e accolti negativamente dagli investitori.

In realtà i numeri erano in leggera crescita, con ricavi in miglioramento del 4,5% a 1,523 miliardi e l'ebit adjusted aumentava dello 0,1% a 360 milioni. L’utile netto adjusted era passato da 233,9 milioni a 239 milioni di euro, ma il debito finanziario netto balzava da 1,853 miliardi a ben 2,553 miliardi di euro a causa dell’acquisizione di Courvoisier, completata il 30 aprile 2024 in vista di un consolidamento appena a maggio, che deve quindi rivelarsi appieno nel perimetro delle attività di gruppo. L'operazione si è chiusa praticamente mentre Fantacchiotti veniva nominato CEO del gruppo.

Un deal da 1,1 miliardi di euro con un potenziale earn-out ulteriore di 112 milioni di euro. L’acquisizione di Courvoisier, la più importante operazione degli ultimi anni, è stata finanziata con nuove azioni ordinarie per 650 milioni di euro e con senior bond unsecured convertibili entro il 2029 per 550 milioni di euro. Il cognac francese fondato nel 1828 è insomma costato caro, almeno finora.

D’altronde la casa Campari è grande: dai brand italiani come Aperol e Campari, alla vodka Skyy, dal whiskey Wild Turkey, The Glen Grant, Forty Creek a liquori come Grand Marnier, Averna, Cynar, Braulio, Frangelico, Ouzoo, fino al Crodino e numerosi gin (O’Ndina, Bickens, Bulldog), ai Cinzano, agli champagne Lallier, alla tequila Espolon.

Fra le incertezze del 2024 si è annoverato ancora il cattivo tempo europeo che ha penalizzato la stagione degli aperitivi, in teoria tra primavera e inizio estate (anche se poi il drink è spesso destagionalizzato).

L’Europa (o meglio l’Emea) è d’altronde fondamentale per il gruppo con un 48,8% delle vendite semestrali pari a 743,2 milioni di euro contro i 687,5 milioni delle Americhe nello stesso periodo (il 45,1%) e i 92,8 milioni della regione Asia-Pacifico che ha registrato un calo di 12,6 milioni per attestarsi al 6,1% del totale ricavi. Nel semestre le Americhe (comprendendo anche l’Argentina dell’iperinflazione) hanno visto una crescita del giro d’affari di Campari di 55,4 milioni, l’EMEA un aumento di 22,8 milioni soltanto.

A trascinare l’America sono stati la tequila Espolon e il Grand Marnier, mentre si radicava ulteriormente il successo dell’Aperol e soffriva la vodka Skyy. In Europa l’Italia faceva da sola 262 milioni su un totale di 743,2 milioni dell’EMEA, ma perdeva 14,4 milioni di euro di fatturato, recuperati dai 14,8 milioni della Germania. 

Ancora oggi in termini di brand l’Aperol la fa da padrone in casa Campari, con 398,5 milioni di euro, il 26,2% del fatturato totale, seguito da Campari (178,9 mln, 11,7%) e da Espolon (129,7 milioni), quindi dal Wild Turkey (portafoglio che comprende American Honey 109,2 mln) e dai rum giamaicani (Appleton Estate, Wray&Nephew Overproof e Kingston per 76,3 mln in totale).

Campari, multipli in linea

Sul fronte patrimoniale la situazione è complessivamente peggiorata con l’aumento segnalato del debito, il debt/equity è passato da 0,48 a 0,67. Ma va anche evidenziato che gli oneri finanziari netti da 33,8 milioni di euro (al netto di effetti valutari positivi per 0,8 mln contro quelli negativi per 10,5 milioni nella prima metà del 2023), pur crescendo di 11,8 milioni a causa dell’indebitamento medio più elevato e dei tassi d’interesse combinati maggiori, appare ancora sotto controllo e ha un costo medio del 3,7%, maggiore sì del 2,6%, ma ancora relativamente limitato.

Anche grazie a fattori d’interesse tipici del settore come l’elevata redditività: il 27,5% per l’ebitda-adjusted e il 15,68% per l’utile netto adjusted.

Nonostante il calo di queste ore, il titolo viaggia a 18,22 volte gli utili (P/E forward calcolato annualizzando il profitto semestrale), che non è poco.
Sul TTM (gli utili degli ultimi quattro trimestri) siamo 35,3 addirittura. Risultati in linea con altri colossi del settore come Diageo, che ha un P/E ordinario di 19,32 con un forward di 17,28 o di Pernod Ricard (21,72 P/E ordinario TTM e 15,57 di P/E Forward).

Con una capitalizzazione di circa 8,7 miliardi e un Enterprise Value (EV) di 11,3 mld, l’azione quota circa 10,49 volte l’ebitda adjusted annualizzato e ha un rapporto EV/EBITDA adjusted di 13x.

Multipli anch’essi un po’ elevati, ma incorporano il posizionamento del gruppo in una fascia di mercato a metà tra i beni voluttuari e quelli di lusso. Nel primo ambito si colloca in positivo il valore anticiclico dei beni di consumo non durevoli e in particolare quello degli alcolici.
Nel secondo ambito c’è il peso dei brand con avviamenti per 2,454 miliardi di euro su un totale di 8,34 miliardi di euro di asset, che, sempre tra le immobilizzazioni registrano impianti per quasi 1,2 miliardi di euro.

Campari, un grafico in pericoloso calo

Non consola però. I minimi di oggi a 7,038 euro sono su livelli che non si vedevano dal maggio 2020 e il grafico sembra in caduta libera e ben lontano dalla costruzione di una base solida dopo i recenti affondi.

Ci potrebbero essere dei supporti storici in area 6,6 euro, in area 6,3 e in zona 6,1 euro, ma il rischio che dopo l’abbattimento del supporto di area 8,55 euro che ospitavano il 61,8% del ritracciamento dell’intero movimento di ascesa partito dai minimi del marzo 2020, si ritorni alla base del movimento a 5,53 euro (poniamo su questo livello l’avvio del trend affidandoci ai prezzi ufficiali ed escludendo il minimo intraday del 16 marzo 2020 a 5,04 euro).

Affondi in poche parole, sempre più vicini e insieme la combinazione di una debolezza generale del settore che deriva da diversi fattori, compresa la competizione sui prezzi e la dinamica dei costi, ma che in definitiva somiglia a un repricing di titoli che forse si sono apprezzati eccessivamente rispetto ai fondamentali.

Nel caso di Campari però sicuramente le discontinuità forti nella governance con un passaggio storico di consegne sconfessato dopo appena 5 mesi non aiutano a riconquistare la fiducia dei mercati.