Economia Usa: come la vogliono Trump e Biden

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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La campagna elettorale dell'anno accende il motore, l'Economist paventa pericoli per il business con Trump, in realtà il Pil è andato bene con tutti e due, ma l'inflazione ha lasciato il segno. Ecco qualche numero

Economia Usa: come la vogliono Trump e Biden

L’Economist non è nuovo a prese di posizione politiche, d’altronde se anche la presidente della Bce Christine Lagarde non ha esitato a definire l’eventuale rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca “una chiara minaccia” per l’Europa, perché la testata guidata da Zanny Minton Beddoes dovrebbe esitare a prendere posizione nello scontro in riscaldamento per le elezioni Usa del prossimo novembre? Così lo fa con un titolo chiaro: “Donald Trump sta vincendo. Imprese attente”.

Trump contro Biden, le tesi dell’Economist

Il ragionamento dell’autorevole testata britannica è che l’economia e le imprese corrono dei rischi dalla rielezione di The Donald. Non ci sarebbero in effetti più i margini per il taglio delle tasse alle imprese che il tycoon attuò durante il suo primo mandato. Secondo il periodico controllato dai Rothschild e dalla Exor della famiglia Agnelli/Elkann anche sul fronte internazionale i rischi di un rinnovato protezionismo potrebbero irritare l’American Business che già mal digerisce il protezionismo in sé.

Secondo l’Economist gli imprenditori continueranno in ogni caso a fare affari, al massimo evitando qualche sbraco del presidente o qualche foto. Se poi per esempio Trump - argomenta non troppo arditamente l’Economist - stringesse un accordo con la Russia e svendesse l’Ucraina sarebbe male per la civilizzazione occidentale, ma ridurrebbe il costo della bolletta energetica.

Nuovi dazi potrebbero concretizzarsi, ma secondo la testata Trump è rimasto “l’uomo dei tagli delle tasse e del debito”. Solo che ora il debito USA è alle stelle e il mercato del lavoro tira già tanto, ci potrebbero essere nuove spinte inflattive che spingerebbero la Fed a rialzare i tassi. Questo sarebbe un problema anche per le imprese che non amerebbero questo scenario, l’Economist afferma di avere parlato con molti businessman di questi temi e condividerebbero questi timori, ma non c’è il nome di uno di loro.

La tesi inflattiva, come effetto di eventuali tagli delle imposte, è un po’ spinta, sicuramente ci sarebbe un effetto sul debito, ma senza dubbio il tema del protezionismo USA e della geopolitica è presente nella campagna Usa e nelle sue valutazioni anche europee, come dimostra l’uscita della Lagarde.

Nonostante i fallimenti della mediazione di Blinken in Medioriente, va detto che le navi Usa sono in prima linea nel tentativo (non ancora efficace, bisogna dirlo) di difendere il Mar Rosso. Andrebbe così anche con Trump?

Quanto al protezionismo bisogna dire che con Biden, come da attese, non è cambiato molto, anzi. La marcia verso la rinazionalizzazione delle filiere ha anzi registrato un’accelerazione importante sotto l’attuale amministrazione, al punto da irritare l’Europa per le enormi risorse messe a disposizione dei nuovi progetti americani sulla produzione tecnologica e non solo.

Di certo tagliare lacci e lacciuoli anche sulle regole delle banche dopo i fallimenti di Signature Bank e Silicon Valley Bank che sono costati cari a colossi come Bank of America, Goldman Sachs, Morgan Stanley e JP Morgan (tutte hanno pagato una quota come apparso delle ultime trimestrali) potrebbe essere gradito forse, ma senz’altro imprudente.

Trump contro Biden, come è andata l’economia Usa con loro

La verità è che negli ultimi anni l’economia americana ha vinto sempre, ma non è neanche detto che duri. Il Washington Post ha fatto i conti in tasca alla Trumpeconomics e alla Bideneconomis e ne viene fuori un quadro interessante. In 12 carte un bel confronto sui risultati delle due presidenze, premettendo che si sono confrontate con due scenari macroeconomici praticamente opposti: sotto Trump tassi a zero, zero inflazione e bassi prezzi dell’energia, ma anche nell’ultimo anno il disastro del Covid con i suoi impatti; sotto Biden tassi in crescita, inflazione alle stelle ed energia molto cara. In entrambi i casi però il Pil USA ha macinato numeri sorprendenti e il mondo del lavoro performance da record.\

Sul lavoro vince Biden: 14 milioni di nuovi posti di lavoro in meno di tre anni, ma con un ritmo discendente, cui probabilmente la stretta Fed e anche limiti strutturali non sono estranei. Sotto Trump 176 mila posti di lavoro l’anno in media, ma anche la perdita – che non gli può essere imputata - di oltre 20 milioni di posti durante il Covid. Anche così i 176 mila posti dei primi anni sono molti meno degli oltre 400 mila della media di Biden e anche dei 216 mila del forte rallentamento dello scorso dicembre. Ma va detto che prima della pandemia la disoccupazione statunitense ha visto un 3,5% con Trump, poi con Biden si è toccato persino il 3,4%, ma ora si è risaliti al 3,7% attuale (è un Paese però dove la disoccupazione nera è al 5,2% non lontana dal minimo del 5,3% dell’agosto 2019 sotto Trump).

Pil: anche sul Pil vince Biden: +22% dall’insediamento contro il +14% dall’era Trump, ma anche in questi numeri va messa la pandemia e i suoi scossoni.

Prezzi delle case e della benzina. Nonostante la forte crescita della spesa per i consumi la vita si è però fatta molto più dura in America e questo potrebbe essere uno dei carburanti del successo di Trump. Durante l’epoca di Trump in media la benzina costava due dollari e mezzo, con un affondo a 1,84 dollari al gallone nel mezzo della crisi pandemica. Da allora è schizzata in alto con un massimo a 4,93 dollari nel giugno 2022 e ora è a 3,13 dollari, comunque molto di più. E poi la casa, non è solo un problema degli attori di Los Angeles: sotto Trump i prezzi delle case vendute negli States erano tra i 313 e i 338 mila dollari circa, sotto Biden sono volati fino a 479.500 dollari nel quarto trimestre 2022 e ora sono a 431 mila dollari, decisamente molto più cari.

Chiaramente l’inflazione ha complicato le cose non poco e anche se ora il 2,9% è tornato sui massimi dell’era Trump (molto più vicina al 2% nella media), ci sono state punte del 9,1% che hanno lasciato il segno sui cartellini dei prezzi. \

L’inflazione ha lasciato il segno anche sui tassi, quindi sulle condizioni di finanziamento o di richiesta di un mutuo, sui prestiti: per un popolo molto indebitato anche a livello privato, come gli Stati Uniti, tassi elevati sono una iattura. Siamo infatti andati a guardare il potere di acquisto dei consumatori e il relativo indice è passato da 39-40 nell’era Trump a 32,6: un crollo collegato all’inflazione e che sicuramente pesa nella vita quotidiana degli elettori. I dati statistici mostrano anche contraddizioni: il reddito disponibile reale, quel che rimane dopo tasse e inflazione, è in realtà cresciuto, ma tutto il resto è aumentato e non è detto quindi che la qualità della vita sia migliorata, anzi.

Per il voto, una trading nation come gli Stati Uniti potrebbe anche guardare all’andamento dei mercati azionari che evidentemente favorirebbe Biden con indici su nuovi massimi storici e molto più in alto dei livelli del periodo Trump.

Gli Stati Uniti oggi e il programma di Trump

Oggi gli Stati Uniti hanno un debito pubblico del 129%, un deficit del 5,8%, una disoccupazione del 3,7%, un’**inflazione **del 2,9%, una crescita del Pil del 4,9% Vanno molto bene, ma con troppo debito.

La questione del debito comincia ad affacciarsi per la prima volta a Washington e gli interessi sono cresciuti molto con il rischio che nuove spese e investimenti portino a un KO delle pubbliche amministrazioni. L’anno scorso hanno speso 875 miliardi di dollari di interessi sul debito, un record che è più del doppio, in valore assoluto, di undici anni fa, senza la spinta alla crescita dell’inflazione, c’è il tema della sostenibilità.

Ma se questo è il quadro forse alcuni spunti del programma di Trump aiutano a capire cosa succede.

Associated Press ha provato a riassumerlo

Smantellamento del Deep State: sostanzialmente taglio della forza lavoro dello Stato, soprattutto dei “degli attori corrotti della nostra sicurezza nazionale e dell’apparato di intelligence” che gli sono andati contro. In pratica uno spoil system, ma non è chiaro se sarà anche un taglio dei servizi di dimensioni più corpose, ossia oltre il perimetro dei suoi nemici.

Immigrazione: i toni si fanno apocalittici con Trump che ha promesso “la più grande operazione di deportazione domestica della storica americana”. Cattivi e criminali migranti dovrebbero essere rispediti oltre il confine con il Messico e le truppe d’Oltremare riportate in Patria per farlo. L’Economist sottolinea che nel 2017 c’erano 1,7 lavoratori americani per ogni posto libero e che oggi ce n’è 0,7, quindi c’è anche un problema di reale fattibilità, ma sono promesse che spesso funzionano lo stesso alle urne.

Più spiccatamente economica la politica commerciale: nuovi dazi fino al 10% dei beni stranieri d’importazione e sanzioni alle manipolazioni straniere dei tassi ai danni degli Stati Uniti. Si tratterebbe di un protezionismo spinto che in passato non ha impedito alla Cina di accrescere il volume delle esportazioni in era Trump, ma se la direzione è questa c’è anche un rischio di inflazione che potrebbe colpire di nuovo l’economia Usa.

Sull’Ucraina basta alle spese Usa e richieste di rimborso all’Europa delle spese sostenute: non è chiaro se il sostegno a Kiev verrebbe meno.

Per l’energia la strada maestra è quella dell’autonomia energetica che in realtà risale alla drilling nation di Obama e si nutre del mantra “Drill, Baby, Drill”, nuove concessioni quindi ed estrazione di idrocarburi. Prevedibile il ritorno a una politica di sabotaggio dell’auto elettrica e della transizione energetica che già in passato lo mise in rotta con lo Stato della California.

Il resto, dalle preghiere nelle scuole agli insegnanti precari ed elettivi, dalla dislocazione dei senzatetto dalle citta a nuove abitazioni in lotti economici di terreno, fino al pugno duro con la criminalità (“Molto semplicemente, se rubi in un negozio, puoi pienamente aspettarti che ti sparino quando esci”) non c’entra con l’economia, ma completa il quadro.

Probabilmente il prossimo presidente statunitense sarà lui, nonostante l’economia americana vada molto bene, sembra che l’inflazione abbia colpito troppo duro, oppure prevale sulle tasche l’odio per i migranti o la passione per l’uomo forte. Forse c’è dell’ideologia (anche se Trump stesso cambia di continuo idea secondo il suo staff).

Di certo l’Europa con l’esito delle elezioni di novembre dovrà fare i conti.

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