Pirelli, rottura in cda sul controllo cinese
pubblicato:La società della Bicocca è ancora il parafulmine delle tensioni tra Stati Uniti e Cina. Al board un passaggio importante nel dibattito ormai annoso sulla governance. Ma forse non basta un golden power e tra divieti dell’amministrazione Biden e dazi di Trump il percorso per le ruote di Pirelli resta a ostacoli. Nei prossimi mesi, nel bene o nel male, ci sarà più chiarezza

Volano gli stracci e la contrapposizione si consolida. Cresce l’attrito tra la parte italiana di Pirelli, che rivendica e ottiene una larga maggioranza in cda, 9 voti su 15 dei componenti, alla dichiarazione che “a seguito dell’emanazione del DPCM Golden Power, è venuto meno il controllo di MPI Italy (e, per l’effetto, di Sinochem) su Pirelli ai sensi dell’IFRS 10” e la parte cinese, che non cede alla rivendicazione del controllo del colosso degli pneumatici.
Pirelli, un cda diviso
Una morsa della Repubblica Popolare che si esprime nel voto contrario alla delibera da parte del presidente non esecutivo della società della Bicocca Jiao Jian (presidente anche di Sinochem Holdings dal 2023) e dei consiglieri Chen Aihua, Zhang Haitao, Chen Qian, Fan Xiaohua.
Si tratta – va notato – di 5 amministratori designati da ChemChina/Sinochem su un totale di 8 di sua competenza. Degli altri tre, Tang Grace si è astenuta e Marisa Pappalardo e Alberto Bradanini hanno evidentemente votato a favore.
Scontato invece il via libera dei componenti del board eletti dalla lista di maggioranza, ma in quota Camfin, ossia il vicepresidente esecutivo Marco Tronchetti Provera, Andrea Casaluci (CEO), Michele Carpinelli e Domenico De Sole.
Anche i 3 consiglieri indicati dagli istituzionali hanno votato a favore.
La vittoria nella conta del consiglio di amministrazione è approdata a un risultato chiave: la dichiarazione del mancato controllo cinese di Pirelli.
Se fosse condivisa da Washington, potenzialmente esenterebbe la casa della Bicocca dal divieto di vendita negli Usa di veicoli connessi che si servono di software o di hardware legati a entità cinesi o russe.
Questa vittoria però ha lasciato delle scorie. Un segnale esplicito di dissenso è giunto infatti da Marco Polo International Italy, che ha espresso «profondo disappunto e ferma opposizione» sulla decisione del controllo. Una dichiarazione aperta e perciostesso irrituale nella prassi comunicativa dei soggetti a controllo cinese.
Qui bisogna fare un passo indietro: Marco Polo International Italy, per brevità MPI, è controlla da Sinochem e a sua volta è il maggiore azionista singolo di Pirelli con il 37,015% del capitale.
La stessa MPI ha in essere un patto parasociale con Camfin Spa, che a sua volta ha un altro 14,496% di Pirelli.
C’è infine nel patto Marco Tronchetti Provera, cui fa riferimento, tra una quota e l’altra, un totale dell’11,557% del capitale di Pirelli, anch’esso apportato al patto.
In totale i paciscenti controllano il 63,07% del capitale di Pirelli, ma già da tempo gli equilibri politici internazionali spaccano la governance di una delle poche società di successo italo-cinesi come Pirelli.
Il DPCM Golden Power aveva già posto dei paletti, poi incorporati dal patto parasociale: "Come previsto dalle prescrizioni del DPCM Golden Power, CNRC [la controllata da Sinochem Holding da cui si passa per quel 37% citato] si impegna a non esercitare attività di direzione e coordinamento". Il passaggio nuovo sta nella precisazione del mancato controllo da parte di Sinochem, lo stesso patto parasociale citato, a cui si appella la conglomerata cinese, ribadiva infatti che "il controllo su Pirelli fa capo a, ed è esercitato da MPI Italy, a sua volta controllata di diritto da CNRC", ma impegnava come detto la controparte cinese a rinunciare all'esercizio delle attività di direzione e coordinamento. Adesso il board delibera che neanche il controllo di Pirelli è attribuibile a Sinochem e qui la società cinese frena, in maniera persino plateale. Le ragioni scavalcano però i busillis giuridici e approdano ai flussi di cassa.
Pirelli, i soldi in gioco
Già perché se è vero che gli Stati Uniti coprono circa il 20% del fatturato di Pirelli, in Cina siamo al 15% circa (nei primi nove mesi dell’anno scorso in tutto il Nord America c’era il 25,4% dei ricavi di Pirelli, circa 1,32 mld, e nell’intera area APAC il 16,4%).
Sul piano produttivo poi Pirelli ha tre stabilimenti in Cina (Yanzhou, Jiaozuo, Shenzhou) e due in Russia (Kirov e Voronezh).
Negli Stati Uniti ha a Rome (in Georgia) un impianto e a Silao, in Messico, un altro, ma programma l’espansione dell’impianto statunitense per una serie di motivi.
Quello esplicito più ricorrente è che il 40% del mercato high value degli pneumatici del mondo è negli Stati Uniti e questo segmento di mercato a premio costituisce da solo l’80% circa dei ricavi di Pirelli, quindi il mercato Usa è strategico e potrebbe pesare in futuro molto di più di quel 20% attuale del giro d’affari della Bicocca.
Il motivo implicito è che l’amministrazione Trump premia o lascia intendere di voler premiare le imprese che investono nella manifattura Usa aumentando la produzione domestica e questo potrebbe tradursi in esenzioni e vantaggi.
Si fa presto a dire che un impianto si progetta in un decennio e che non si costruisce una fabbrica dall’oggi al domani: sotto Trump si contano negli ultimi mesi 500 mld del progetto Stargate (andrà avanti?), 500 mld di nuovi investimenti di Apple, altri 500 mld promessi da Nvidia nell’infrastruttura locale, poi 100 mld da TSMC, 150 mld da IBM, 55 mld da Johnson & Johnson e ancora Eli Lilly, Roche, Hyundai, Novartis… anche Stellantis ($ 5 mld) e Toyota (88 mln).
Pirelli, i lasciti di Biden e le minacce di Trump
Ma su questo ‘fronte’ della guerra commerciale occorre fare chiarezza. Le norme che minacciano Pirelli e l’industria automotive globale in rapporti con Cina e Russia non sono dazi, ma un lascito dell’amministrazione Biden.
Si tratta del divieto di vendita di veicoli connessi che supportino software o hardware di entità controllate, possedute o soggette alla giurisdizione o alla direzione della Repubblica Popolare cinese, come Sinochem.
Il divieto di vendita negli States, che ricalca i bandi ai danni di Huawei e si appella alla sicurezza nazionale, scatterà nel 2027 per i software e nel 2030 per gli hardware.
Non è dunque un tema di dazi, stricto sensu: le nuove tariffe dell’amministrazione Trump al più colpiscono (o colpiranno dal 9 luglio) la produzione di Pirelli extra USA, a partire da quella messicana.
Stabilire quindi se Sinochem è la controllante di Pirelli è dirimente sul mercato Usa dove la società appena ribadito lo scorso 11 aprile la volontà di aumentare la capacità produttiva in una strategia “local for local”, ma ha anche ammesso di valutare ancora gli ostacoli normativi legati ai temi di governance e di azionariato di cui abbiamo discusso.
All-in-all la questione con Beijing passa quindi anche da Washington dove si attendono verosimilmente segnali sulla possibilità di scongiurare un veto che avrebbe un duro impatto su un mercato strategico e promettente come quello statunitense.
Il prossimo passo sarà l’assemblea del prossimo 12 giugno 2025.
Pirelli, passa all'assemblea di giugno il caso, nel fascicolo anche il dividendo e la conferma della guidance
Nel frattempo saranno pubblicate la valutazione e le relative conclusioni di questo cda, entro il prossimo 30 aprile (cioè domani), faranno da corredo alla relazione degli amministratori sul bilancio 2024.
L'ultimo esercizio si è concluso con utili in crescita a 501,1 milioni di euro (468 mln per la capogruppo, 613,5 mln l’utile adjusted) e con la proposta di una cedola da 0,25 euro. Ai corsi attuali di 5,38 euro, il dividendo in stacco il 23 giugno (dopo la citata assemblea), vale circa il 4,65% in termini di dividend yield e sembra improbabile che Sinochem voglia rinunciarvi.
Anche se la posizione cinese sul controllo del gruppo Pirelli, in virtù del ruolo di maggioranza di MPI nel patto parasociale che vincola il 63% del gruppo è stata ribadita da questo azionista di peso.
Dopo il golden power del governo e dopo il disimpegno di Brembo che sembrava intenzionata a creare un colosso della componentistica automotive, salvo poi fare marcia indietro.
L’assetto proprietario e industriale di Pirelli rimane ancora una volta al centro dell’attenzione.
Il titolo Pirelli ha recuperato terreno dai minimi del 9 aprile scorso a 4,692 euro, ma è ancora distante dai massimi che ancora a fine febbraio si ponevano a 6,134 euro. Difficile credere che la Repubblica Popolare spinga subito lo scontro a un disimpegno che potrebbe essere disastroso per le valutazioni della compagnia, difficile però anche credere che nel giro di un paio di mesi il braccio di ferro tra Washington e Beijing che passa ancora una volta dalla stessa Pirelli possa risolversi.
Graficamente servirà molto di più del recente rimbalzo per scongiurare nuovi ulteriori affondi. Dal punto di vista dei fondamentali, la conferma della guidance 2025 (ricavi tra 6,8 e 7 miliardi quest’anno ebit margin adjusted in crescita al 16% e leva finanziaria in calo all’1,0x con un debito ridotto a 1,6 miliardi) confortano. Reuters riporta un P/E ordinario di 12,48x che scende a 9,22x per il forward, ossia l’utile dovrebbe crescere.
I multipli però si fanno interessanti fin d’ora anche se rimangono sottoposti alla duplice incertezza sul fronte delle norme Biden per il settore e dei dazi Usa alle importazioni.
Come per tante partite dalla finanza e dell’industria globale il quadro insomma rimane contradditorio e incerto.
Serve maggiore visibilità. Merce rara di questi tempi.