Petrolio, i rincari rischiano di affondare la ripresa
pubblicato:L’ultima decisione dell’Opec+ non aiuta molto, ma probabilmente non possono fare molto di più. Il taglio del petrolio russo ci costerà molto, qualche opzione ci sarebbe in Iran, ma la carenza di greggio potrebbe avere conseguenze pesanti
Il cavaliere nero della fragile ripresa in corso è ancora il petrolio. Oggi le sue quotazioni segnano qualche calo con il Brent in contrazione dell’1,32% a 116,71 dollari al barile e il WTI non molto distante a 116,69 dollari (-1,36%).
Parliamo di prezzi che il Brent europeo non vedeva dal periodo 2011-2015 (la crisi del debito sovrano per intenderci) e il WTI americano dal 2008 (i mutui subprime e Lehman Brothers) e che questa volta rischiano di essere più duraturi e meno gestibili.
Nonostante la corsa verso l’elettrificazione dei trasporti e verso la riduzione del peso del greggio sull’economia, il petrolio rimane infatti il protagonista energetico indiscusso del trasporto globale, non solo auto e camion, ma anche navi e aerei. Nel 2020 negli Stati Uniti derivava dal petrolio, tra benzina, distillati e carburante per aerei circa il 90% dell’energia del settore trasporti.
Sempre nel 2020 l’Europa festeggiava una quota del 10,2% dell’energia dei trasporti da fonti rinnovabili, che per converso conferma che anche nel Vecchio Continente siamo ancora a un pesante 90% circa di carburanti fossili e quindi di petrolio e derivati.
Petrolio: improbabile che basti
Tutto lascia credere che questa dipendenza ci costerà cara nel medio termine e forse oltre. Partiamo dalle sanzioni europee sul greggio russo, il sesto pacchetto appena formalizzato. La migliore lettura in termini di impatto sulla Russia è che, nonostante le concessioni all’Ucraina, taglieremo (entro la fine dell’anno) del 90% le importazioni di petrolio russo, con forti impatti su Mosca.
Ieri poi l’Opec+, il cartello dei produttori di petrolio allargato alla Russia e ad alcuni suoi alleati ha deciso di anticipare a luglio gli aumenti della produzione prima previsti per settembre: dal prossimo mese dovrebbero aggiungere alle forniture 648 mila barili di petrolio al giorno, contro l’aumento atteso di 432 mila barili.
Davvero poco secondo molti osservatori, per altri analisti più di quanto riusciranno veramente a fare. La drammatica verità è infatti che già oggi il mercato internazionale del petrolio è in grave sofferenza, non soltanto per la questione russa, ma anche per il crollo degli investimenti negli ultimi anni. I prezzi lo confermano.
Una recente analisi di Unicredit calcolava, appena prima della decisione Opec, che fra la produzione di greggio russa perduta e l’incapacità di diversi membri Opec di rispettare le quote di produzione concordate, a luglio potrebbero mancare 4,5 milioni di barili all’appello degli impegni dell’Opec+ e al mercato. Nella seconda metà dell’anno i rischi di un Brent verso 115-125 dollari con punte anche a 130 dollari al barile sono notevolmente cresciuti. Sono livelli letteralmente dirompenti che minacciano tutte le economie, compresa quella cinese.
Qualche sollievo forse potrebbe venire dall’Iran. Un accordo con gli Stati Uniti, con la cancellazione dei Guardiani della Rivoluzione dalla lista delle organizzazioni terroristiche, potrebbe riportare il greggio di Teheran sul mercato, circa un milione di barili al giorno di cui avremmo davvero bisogno.
Ma sembra improbabile che Joe Biden diretto verso le elezioni di Midterm di novembre si metta in questa posizione, più probabile forse che tiri in lungo il negoziato, a danno soprattutto dell’Europa (ma non solo).
Intanto le condotte nigeriane perdono e cala la produzione da acque profonde dell’Angola, mentre molti altri produttori non riescono a mantenere le quote e anzi abbassano la produzione.
Con una domanda proiettata in crescita di 2,2 milioni di barili nel mondo nel secondo semestre del 2022 e aumenti produttivi fuori dall’Opec+ di appena 1 milione di barili, al mondo rischia di mancare quel milione di barili di petrolio al giorno di cui ha bisogno per contenere i prezzi. In questo scenario di squilibrio insomma il quadro si rabbuia.
Caro petrolio: le conseguenze
Le previsioni danno nuvole nere, stormi di temporali in arrivo. Lo stesso Jamie Dimon (JP Morgan) ha appena detto di prepararsi per un “uragano economico”.
Al netto dei rischi atomici l’inflazione è oggi la bestia nera dell’economia. Da tempo si nutre delle carenze di forniture cinesi e orientali e soprattutto dei rincari dell’energia. Il caro carburante, con la benzina oltre i 2,2 euro in Italia e sui record di 4,67 dollari a gallone negli Stati Uniti, sta già distruggendo la domanda, allargandosi a tutte le merci e servizi e minacciando la recessione.
Petrolio: le banche centrali hanno le armi spuntate
Certo ci sono cicli diversi negli Stati Uniti e in Europa, ma la guerra russa in Ucraina con i suoi impatti più diretti sul Vecchio Continente sta avvicinando le due fasi.
Stati Uniti. Ad aprile l’inflazione Usa è “scesa” all’8,3% dall’8,5% di marzo, ma rimane su livelli da anni ’80. L’inflazione core, quella senza energia e alimentari, è passata dal 6,5% di marzo al 6,2% di aprile: significa che tre quarti dei rincari sono ormai strutturali, s’altronde anche gli stipendi salgono da un po’ (ma meno dell’inflazione).
Bisogna quindi intervenire subito, prima che i rincari blocchino la domanda e gettino nella povertà e nella disoccupazione le famiglie. Il pericolo è infatti lo scenario peggiore, quello della stagflazione: economia in calo e meno lavoro, prezzi più alti e meno potere di acquisto per famiglie che entrano in crisi.
La Fed ha appena avviato la riduzione del budget e prevede una sfilza di aumenti dei tassi, ma la grande paura dei mercati è che la situazione sia già tanto avanzata da richiedere una cura restrittiva da cavallo che lasci stremata l’economia.
La situazione in Europa
Nel Vecchio Continente il quadro si sta aggravando rapidamente. Negli Stati Uniti c’è qualche vago segnale di discesa (anche se si teme che ormai la macchina dei prezzi corra troppo da troppo tempo), qua invece le cose continuano a peggiorare. L’inflazione a maggio è prevista all’8,1% in forte crescita dal 7,4% di aprile: la stima flash dell’Eurostat indica quindi un livello dei prezzi di quattro volte l’obiettivo della Bce.
Quasi il 40% di questi rincari derivano dall’energia, che aumenta il suo peso sul totale, anche se alimentari, tabacco e alcol crescono come componente dal 6,3 al 7,5% del totale. La differenza tra i 2/5 di inflazione core in Europa e i ¾ degli Stati Uniti dà all’Europa qualche margine in più sulla inevitabile stretta monetaria, ma gli scostamenti concreti dei prezzi rispetto ai target lasciano poco sperare e anzi cresce la probabilità che la Bce comunque diventi sempre più falco.
C’è infatti in gioco anche il tema della produttività e della competitività delle economie occidentali. Rincari strutturali dei costi del lavoro e della produzione rischiano di boicottare le nostre produzioni su scala globale proprio mentre progettavamo una riappropriazione di parte delle filiere.
L’enorme peso dell’energia su tutti questi rincari (non senza pesanti speculazioni che crescono nel disinteresse e nell’impotenza dei governi) lascia per molti versi a componenti esogene la dinamica dei rincari.
In questo scenario le armi delle banche centrali sono spuntante.
FED e BCE potranno stringere i cordoni per frenare l’inflazione, ma questo peserà sull’economia e renderà meno sostenibili debiti pubblici su livelli storicamente da record. L’inflazione in parte li svaluterà, ma si preparano tempi duri.
Alla fine i produttori di materie prime vincono e il prezzo pagato per quel maledetto barile che dovevamo lasciarci alle spalle andrà fuori dai nostri confini monetari, in una direzione che non volevamo.