Petrolio, le scosse vanno ben oltre il barile
pubblicato:I tagli dell'Arabia Saudita sono il sintomo di una crisi profonda, ma nel prezzo del greggio si rispecchiano anche l'escalation in Medioriente e i timori sull'economia
Oggi il petrolio greggio tenta una rimonta, ma lo scossone di ieri non è passato inosservato nei mercati internazionali. Alle perdite di ieri di oltre il 3% del Brent e del 4% per il WTI segue oggi una parziale rimonta di entrambi i blend del 2% circa.
L’affondo di lunedì però si è sentito è ha mandato in rosso nei listini anche gran parte delle compagnie petrolifere non solo europee con Saipem che ha ceduto il 3,86%, Eni che ha perso il 2,96% e Tenaris che ha perso il 2,09%
Soprattutto però la seduta di ieri ha sottolineato il complesso quadro di incertezze economiche e geopolitiche che dal greggio si proietta su tutto lo scenario finanziario.
Petrolio, il taglio saudita conferma la crisi dell'Opec
Lo scatto delle vendite è partito dall’Arabia Saudita e dalla sua Saudi Aramco che ha deciso di tagliare di 2 dollari il prezzo del petrolio greggio offerto a febbraio ai mercati asiatici e non solo. Si tratta del maggior taglio degli ultimi tredici mesi e secondo gli analisti deriva direttamente dal contesto competitivo delle altre offerte di petrolio greggio.
Non soltanto l’interferenza della produzione petrolifera non Opec (gli Stati Uniti per esempio), ma persino le forniture dei paesi del cartello in linea di principio alleati di Riad.
A novembre il cartello allargato dell’Opec+, che integra due pesi massimi della produzione di greggio come l’Arabia Saudita e la Russia fino a una quota di oltre il 40% del greggio mondiale, aveva deciso di tagliare la produzione di petrolio nel primo trimestre di quest’anno di circa 2,2 milioni di barili al giorno.
Ma c’erano stati troppi dissidi tra i vari membri e anche il contesto sembrava spingere tutto in un’altra direzione cosicché la reazione del mercato era stata di semplice incredulità con il prezzo del petrolio greggio che aveva ripreso a scendere dopo i cali già visti da ottobre in poi.
C’era stata la sorpresa dell’ingresso nell’Opec di un peso massimo come il Brasile, ma, dopo i primi contrasti a giugno, era esploso il dissenso i Paesi produttori africani del cartello a partire dall’Angola che poi aveva annunciato l’uscita dall’Opec.
In pratica l’Arabia Saudita aveva chiesto una revisione indipendente delle quote di produzione di greggio di diversi Paesi sospettati di non mantenere gli impegni presi.
Proprio a novembre, in una riunione giunta dopo un inatteso rinvio di qualche giorno, erano state ufficializzate le nuove quote che sancivano una produzione minore in molti Paesi.
Da qui la richiesta di fare di più e l'esplosione dei malumori che ha portato all’uscita dell’Angola, membro Opec dal 2007. Altri Paesi, secondo le indiscrezioni, potrebbero seguire Luanda, a partire dalla Nigeria. Per molti nuove quote e quindi nuovi tagli sono troppo difficili in questa situazione di crisi.
Così si è concretizzata la crisi del cartello dei produttori guidati dall’Arabia Saudita che ieri ha visto una nuova tappa con il taglio dei prezzi di Aramco su livelli più vicini al blend Oman/Dubai.
Petrolio, ma la geopolitica preme sui prezzi
L’ultimo scivolone del greggio si inserisce in un trend discendente che dura da mesi. Lo incoraggiano diversi fattori, dal livello elevato delle scorte, alla produzione abbondante di greggio fuori dal cartello, fino alle proiezioni sulla domanda cinese e occidentale che devono fare i conti con il rallentamento dell’economia che non è certo che sia un soft landing.
Dall’altra parte però ci sono le guerre.
L’ultima viene da lontano. In Libia domenica 7 gennaio la NOC (National Oil Company) ha dichiarato lo stato di forza maggiore, ossia l’interruzione delle forniture, nel maggiore giacimento del Paese, lo Sharara. Le proteste della popolazione libica per il rincaro dei carburanti a livello nazionale e la grave crisi economica hanno rimosso dal mercato oltre 300 mila barili di petrolio al giorno, una quantità tale da influenzare anche i prezzi internazionali. Un altro scenario esacerbato di crisi.
L’escalation drammatica dei conflitti in Medioriente però alimenta ben altre incertezze in aree chiave per la catena di fornitura del petrolio. La reazione di Israele agli attacchi del 7 ottobre da Gaza si sta già estendendo alla Cisgiordania, al Libano e alla Siria, nonostante i tentativi statunitensi ed europei di frenare il dilagare delle violenze.
L’impatto più diretto e ancora in fase di sviluppo è stato quello della crisi del Mar Rosso. Per rappresaglia contro Israele gli Houthi dello Yemen hanno infatti avviato degli attacchi contro le navi in transito a largo del Corno d’Africa. Un terremoto per il commercio globale con conseguenze ancora da misurare del tutto. Dallo stretto di Bab al-Mandab transita infatti circa il 30% dei container del mondo, il 9% del greggio, il 4% del gas liquefatto.
Le compagnie di navigazione hanno iniziato a bloccare la rotta, nonostante gli interventi militari delle potenze occidentali a difesa dei navigli. Ancora pochi giorni fa il colosso Maersk confermava la decisione di imporre alle navi portacontainer la rotta intorno al Capo di Buona Speranza, qualcosa come 10 giorni in più di navigazione che si ripercuoteranno a catena su tutti i prezzi. Anche il colosso Hapag Lloyd ha annunciato un’esplosione dei costi.
Ma intanto da novembre a oggi il titolo della danese Maersk ha guadagnato più del 37% in Borsa e non è neanche più sui massimi. Più costi dovranno per forza tradursi in maggiori ricavi, è la cinica considerazione del mercato cui si preparano già da settimane gli operatori. Così però la crisi si allarga a macchia d’olio e la fuga degli armatori dallo stretto di Suez rischia di creare il peggiore degli scenari possibili: il ritorno o la persistenza dell’inflazione che le banche centrali temono più di ogni altra cosa.
Per ora prevalgono le incertezze su domanda ed economia, i tagli sauditi e il buon approvvigionamento globale in altre aree, ma ancora una volta il petrolio greggio in quest’epoca che si dichiara avviata alla decarbonizzazione, resta un termometro fondamentale.