Piazza Affari, al via le nuove regole, ecco cosa dicono
pubblicato:Nuove leggi per i mercati, con l'approvazione al Senato del DDL Capitali. Voto plurimo fino a 10, lista del cda etc. etc. Ecco come funzionerà. Le novità, gli obiettivi e le critiche alla strategia del governo per riportare in Italia le quotate fuggite ad Amsterdam.
Il bollino del Senato sulla nuova riforma del mercato dei capitali dovrà riportare in Patria diverse società quotate allontanatesi dal Paese e magari attrarre nuove IPO. Il DDL Capitali ha ottenuto, dopo il via libera alla Camera, un ok di Palazzo Madama con 80 voti favorevoli, 47 astensioni e nessun voto contrario.
Profonde le modifiche previste al Testo Unico della Finanza (TUF) soprattutto sul fronte dell’amministrazione delle quotate, della rappresentanza politica di piccoli e grandi soci, della trasparenza informativa.
Non mancano le critiche anche accese, da Glass Lewis ad Assogestioni, già sul Financial Times erano emerse alcune perplessità sul nuovo impianto normativo, ma ci sono anche lodi e supporto su altri fronti a questa reazione alla fuga da Piazza Affari che si è vista negli ultimi anni. La lista è impressionante: Exor, Stellantis, Campari, MFE (la ex Mediaset), Cementir, Ferrari, CNH Industrial, Iveco etc. La destinazione è quasi sempre Amsterdam. L’obiettivo che il governo si è posto è:
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semplificazione e razionalizzazione della normativa di settore
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rilancio del mercato dei capitali domestico attraverso un recupero di competitività
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attrazione degli investitori e indirizzo del risparmio privato verso il finanziamento diretto dell’economia reale
In pratica si tratta di una sorta di deregulation mista che cerca di rendere meno oneroso per i grandi soci il controllo di una società quotata e più agile la gestione della stessa, anche tramite minori oneri informativi.
Il contraltare è una riduzione forte del principio “una azione, un voto”, che per molti investitori istituzionali è una garanzia, almeno a parole, ma che poi non ha ostacolato la fuga delle società quotate verso piazze finanziarie meno rigide sulla rappresentazione politica delle minoranze azionarie. Cominciamo da qui.
Mercati, le nuove regole: fino a 10 voti per ogni azione
La holding olandese di casa Agnelli, EXOR NV, è controllata all’86,3% dei diritti di voto dalla Giovanni Agnelli BV. In pratica ha 125.343.372 azioni, il 53,6% del totale, ma 624.211.900 diritti di voto, l’86,3% del totale. E questo significa che la holding degli eredi di Gianni Agnelli potrebbe anche vendere un cospicuo numero di azioni mantenendo uno stretto controllo di tutto l’impero. Ma gli equilibri sono più tesi in Stellantis, la casa della Fiat e della Peugeot, dove la stessa Exor ha l’11,23% del capitale e il 22,46% dei diritti di voto ed è tallonata dal 9,6% di BPI France e dall’11,1% dei Peugeot (sempre in termini di voto).
Ricostruire per tutti sarebbe lungo e noioso, ma è chiaro che il potere dei soci di riferimento crescerà con la possibilità moltiplicare i voti.
L'Italia si avvicina all'Olanda, ma in fondo è un'accelerazione perché esiste già oggi anche nel Bel Paese la possibilità di deroga dal principio “un’azione, un voto”, anzi ne esistono due: il voto maggiorato e il voto plurimo.
Risale ormai al 2014 il cambiamento normativo italiano, ma il voto plurimo consente fino a 3 voti per ogni azione e il voto maggiorato fino a 2 voti.
Con le nuove norme ogni singola azione potrebbe raggiungere fino a 10 voti e questo cambia tutto.
L’ottimizzazione del costo capitale delle famiglie che spesso controllano molti big dell’industria italiana sarà garantita (o almeno facilitata), ma ovviamente gli azionisti di minoranza perderanno in proporzione di rappresentanza. Non significa però soltanto la difesa dello status quo, anzi. Matteo Tiraboschi, presidente esecutivo di Brembo, spiegò un anno fa, in occasione dell’annuncio della “trasformazione trasfrontaliera” della storica società dei freni, che per crescere anche con acquisizioni sarebbe servito forse un aumento di capitale, con il rischio di perdere il controllo. Con la moltiplicazione dei diritti di voto invece è più facile mettere insieme controllo e aumenti di capitale.
In pratica si separa la proprietà dal controllo, nel senso che in teoria con il 5% del capitale si può controllare una multinazionale quotata, anche se ci vuole tempo, infatti ci vogliono 12 mesi alla volta di controllo consecutivo delle stesse azioni per maturare un diritto di voto in più, quindi 9 anni per arrivare a dieci diritti di voto per azione.
Il famoso proxy advisor Glass Lewis, uno di quei consulenti che suggeriscono ai grandi fondi pensione e azionisti internazionali come votare nelle assemblee delle società partecipate, ovviamente è contrario. Un trattamento differente dei soci e diritti di voto extra potrebbe infatti danneggiare i soci di minoranza, anche potenzialmente favorisce una struttura azionaria più stabile.
Ci va ancora più dura l’ICGN (International Corporate Governance Network) cui fanno riferimento investitori con asset in gestione per 77 trilioni di dollari. Secondo il network c’è il rischio di monopolio del processo decisionale da parte dei fondatori o dei soci di controllo e questo potrebbe tradursi in maggiori rischi di espropriazione, di estrazione di benefici privati dalla compagnia ai danni degli azionisti di minoranza.
In realtà il caso di diverse classi di azioni con diversi diritti di voto non è affatto raro. La Berkshire Hathaway di Warren Buffet ha 566.618 azioni di Classe A, ognuna con un diritto di voto, e poi ha circa 1,3 miliardi di azioni di Classe B che invece devono prendersi a pacchetti da 1.500 per ottenere un voto. Buffet la controlla in pratica tramite circa 216 mila azioni di Classe A.
Mark Zuckerberg controlla Facebook tramite azioni che valgono proprio 10 volte quelle degli azionisti comuni. E anche in America si discute sempre più spesso di questo doppio binario politico. Alla SEC, la Consob statunitense, Rick Fleming ha parlato di “ricetta per un disastro”.
Ma il voto multiplo non è certamente l’unica novità della nuova legge.
Mercati, le nuove regole: la lista del cda che fa discutere e il caso Generali
Uno dei punti più controversi della nuova riforma è quello che riguarda la lista del cda. È un argomento dibattuto da tempo in Italia. Le nuove norme pongono un riferimento laddove al vuoto normativo era subentrata una prassi ancora incerta.
La nuova legge disciplina la materia, ma – è il timore di diversi osservatori – rischia di complicare la governance anche di grandi quotate in materia notevole. Andiamo ai fatti.
La nuova legge all’articolo 12 prevede che il consiglio di amministrazione uscente possa presentare una propria lista di candidati per il board successivo. La lista del cda però dovrà possedere un numero di componenti pari a un terzo in più del numero di consiglieri da eleggere. La lista deve inoltre ottenere il cda una maggioranza schiacciante, pari almeno a due terzi dei consiglieri uscenti.
Ma quel che complica davvero il quadro è che poi in assemblea la votazione sulla lista avviene candidato per candidato, ossia vengono passati in rassegna dai soci tutti i nomi della lista del cda (che sono appunto un terzo in più dei posti).
In ogni caso le minoranze sono molto tutelate (e questo probabilmente intende ribilanciare le nuove previsioni sui diritti di voto che i soci di controllo possono raggiungere). Se infatti la loro lista ottiene meno del 20% dei voti, alla lista di minoranza viene comunque assegnato un quinto dei posti in cda (il 20% appunto). Se invece la lista di minoranza supera il 20%, ottiene posti in proporzione (quindi più del 20%).
L’eventuale lista del cda uscente (un uso molto diffuso all’estero) sarà quindi:
1) numerosa, ossia abbia candidati numericamente superiori di un terzo ai posti disponibili,
2) che sia largamente appoggiata dal cda uscente (appunto con maggioranza dei due terzi) e
3) che passi al vaglio dell’assemblea dei soci candidato per candidato
In ogni caso poi almeno un quinto dei consiglieri andrà alle minoranze. E siccome poi il controllo della società ha uno snodo essenziale proprio nel consiglio di amministrazione, in questa stessa sede si comporranno le volontà dei soci di controllo e di quelli di minoranza.
Subito un po’ tutti hanno pensato al caso Generali, alla battaglia tra Mediobanca e Caltagirone per il cda e ai possibili effetti sulla governance non soltanto del Leone di Trieste, ma anche di tante altre quotate italiane.
Senza girarci attorno Patrick Jenkins sul Financial Times ha indicato il più ovvio beneficiario delle nuove regole in Francesco Gaetano Caltagirone, che appunto ha battagliato con Mediobanca per il controllo di Generali e che potrebbe ora averla vinta. Caltagirone controlla Il Messaggero, il Mattino, il Gazzettino e altri importanti giornali ed è considerato un alleato chiave del governo Meloni, potrebbe quindi avere incassato una norma importante per una partita finanziaria decisiva.
D’altronde alcuni giorni fa Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca e strenuo difensore della presa su Generali, ha ribadito che il nuovo DDL Capitali “è un provvedimento che sarà difficile applicare o richiederà interventi correttivi se si vuole renderlo applicabile”.
D’altronde a novembre lo stesso CEO di Generali Philippe Donnet aveva affermato: “Sulla versione attuale [del disegno di legge Capitali] ho qualche perplessità, si corre il rischio di rendere ingovernabile le grandi società quotate. Se fosse approvato come è adesso, non si tratterebbe di un segnale positivo nei confronti del mercato, di cui l'Italia invece ha un grande bisogno. Non vedo la necessità di stravolgere un sistema che funziona ed è già molto vicino alle migliori prassi internazionali, specialmente in Europa”.
Donnet è stato eletto proprio in quota Mediobanca e proprio tramite una lista del cda uscente nel 2022, durante la citata battaglia con Caltagirone. Alla fine Mediobanca aveva vinto anche grazie a un prestito titoli di BNP Paribas che aveva catapultato le sue quote dal 13 al 17,2%. Una battaglia senza esclusione di colpi insomma, in cui le posizioni avevano contato più dei piani e si faticava a capire davvero dove si volesse portare da un punto di vista industriale la maggiore compagnia assicurativa italiana. Chissà che questa volta l’esito non cambi: l’appuntamento è per l’aprile 2025 e c’è chi parla già maliziosamente di DDL Caltagirone.
Ma ci sono ancora altre importanti novità.
Mercati, le nuove regole: il rappresentante designato
Fra i provvedimenti che maggiormente hanno irritato Glass Lewis c’è però anche quello sul rappresentante designato. In pratica nelle quotate, durante la pandemia, si è permesso di tenere le assemblee anche a porte chiuse con la rappresentanza dei soci di minoranza assegnata esclusivamente a un rappresentante designato.
Questo provvedimento emergenziale che è divenuto prassi durante la pandemia è duramente contestato dal proxy advisor che critica l’impossibilità diretta di porre domande al cda della società quotata e di confrontarsi con la stessa nella sede chiave dell’assemblea. Valori, la testata di Fondazione Finanza Etica (promossa da Banca Etica ed Etica Sgr), denuncia senza mezze misure: “Il Ddl Capitali del governo affossa l’azionariato critico e la democrazia” aggiungendo che la norma appena approvata vuole eliminare ogni forma di discussione interna. E così facendo potrebbe anzi allontanare gli investitori.
ICGN afferma anch’essa che l’emergenza Covid è finita e non serve più l’assemblea a porte chiuse, che anzi l’incontro almeno annuale con i soci è un meccanismo essenziale del render conto dell’azienda e dell’esercizio dei diritti dell’azionista. È l’occasione di interagire con il cda e i manager, specialmente sulle proposte divisive, di vedere il materiale presentato ai meeting, di porre domande aperte alla gestione e di prendere delle posizioni dalla platea.
Il problema del rappresentante designato però si fa più spinoso se si pensa alla modalità di nomina del nuovo cda, in caso di approvazione della lista consiglio di amministrazione consigliere per consigliere, come farà il rappresentante designato a esprimere per i vari soci tutte le posizioni membro per membro? E sarebbe comodo?
Mercati, le nuove regole: varie altre misure importanti
Ma le novità non finiscono qua. Ci sono diversi cambiamenti molto pratici.
La prima soglia rilevante passa dal 3 al 5%, quindi soltanto sopra questa quota del capitale sarà obbligatorio comunicare le operazioni alle Autorità.
Passa da 500 milioni a un miliardo di euro la capitalizzazione limite per le PMI che emettono capitale (quindi i vantaggi si estendono a una fetta più ampia di Piazza Affari).
La Consob non potrà più aumentare discrezionalmente i flottante delle quotate quando un soggetto supera il 90% del capitale (quindi questo non dovrà ripristinare per forza il flottante), inoltre l’Autorità non potrà con propri regolamenti decidere i requisiti della quotazione o sospendere le decisioni sulle IPO. Non sarà neppure obbligatorio comunicare alla Consob, per chi abbia più del 10% del capitale, le operazioni effettuate per interposta persona. Ma va detto anche che la Consob potrà contrastare la pubblicità su Internet di servizi di investimento prestati da soggetti non abilitati.
Per il responsabile del collocamento cade anche la presunzione di colpa per eventuali informazioni false nel prospetto (si abroga il comma 7 dell’articolo 94 del TUF c. e quindi si alleggerisce la responsabilità dell’intermediario ai danni dei potenziali sottoscrittori).
Non è più obbligatorio per i soci di controllo segnalare le operazioni effettuate.
In definitiva per molti aspetti quindi una deregulation a favore degli emittenti che punta a ridurre gli oneri di quotazione in capo a società quotate e intermediari.
Gli Enti previdenziali infine diventano controparti qualificate ai fini della prestazione dei servizi di investimento con l’obiettivo ancora di ampliare la platea degli investitori a sostegno dello sviluppo o del rilancio di Piazza Affari.
Un riassetto complessivo insomma che ha già fatto discutere e forse questo è già un bene.