Credit Suisse: il ballo dei coco bond, ecco cosa è successo
pubblicato:Azzerati i bond, ma non le azioni, il caso ha scosso i mercati e la fiducia di molti investitori. La BCE rassicura, qui impossibile. Ma si dovrebbero guardare anche le sorelle americane, le trust preferred security e ricontrollare i contratti firmati.
Coco Bond, AT1, Additional Tier 1… sono soltanto alcuni dei nomi dei famigerati bond di Credit Suisse che in queste ore inviperiscono diversi osservatori.
Travolti dal tecnicismo della questione, molti commentatori hanno tralasciato di dire una cosa essenziale: sono obbligazioni escluse dalla vendita al retail, almeno in Europa, quindi il parco buoi dei padri di famiglia, almeno questa volta, dovrebbe averla fatta franca. E potrà riconcentrarsi sugli stratagemmi per pagare muti variabili dalle rate montanti e bollette ancora imperiose.
Un’altra cosa da sottolineare è che questi strumenti sono stati progettati proprio per quanto accaduto, ossia per trasformarsi in capitale ed eventualmente coprire le perdite in caso di emergenza. Sono infatti nati con la crisi finanziaria del 2008 e non ce ne vogliano dunque quegli investitori professionisti, se notiamo umilmente che gli scricchiolii di Credit Suisse si sentivano ormai da mesi, se non da anni.
Oltretutto, proprio per il rischio maggiore che questi strumenti sopportano, i loro rendimenti sono stati storicamente assai più elevati di altri tipi di bond, quindi chi li ha comprati è stato pagato con generose cedole finora e tendenzialmente sapeva o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere quello che faceva.
Credit Suisse, un problema di seniority
Naturalmente questo non esaurisce la questione. Il nodo più discusso e sacrosanto è stato infatti quello della seniority, uno dei pilastri della finanza di tutto tempo, riassumibile storicamente nel tema: se le cose vanno male chi prende per primo i soldi che restano in cassa? Ecco la risposta canonica, semplificando grossolanamente, è sempre stata, prima gli obbligazionisti e poi, se resta qualcosa, gli azionisti.
Le azioni sono infatti strumenti per definizione a rischio più elevato delle obbligazioni e chi investe in azioni normalmente è (o dovrebbe essere) consapevole del fatto che sta correndo un rischio maggiore di chi investe in obbligazioni.
Ovviamente poi c’è azione e azione, bond e bond, ma chiaramente se l’emittente è lo stesso, come in questo caso Credit Suisse, beh il problema della seniority dovrebbe essere facile da risolvere.
E invece le cose non sono andate così e mentre agli azionisti qualcosa è stato dato. Agli obbligazionisti che avevano in portafoglio titoli AT1 del gruppo svizzero comprato da UBS non andrà nulla: una perdita del 100% dei 16 miliardi di franchi che ci erano stati investiti.
Si dirà che erano strumenti azzerabili in caso di crisi e così è andata. Ma in realtà è stato saltato proprio il passaggio delle azioni, cioè quel capitale che si sarebbe dovuto azzerare prima di ricorrere ai coco bond.
Come mai? Sembra che ci fossero clausole svizzere specifiche che consentissero questa operazione, torneremo sull’argomento.
In Europa, si sono affrettati a ribadire alla Bce e dai governi, non sarebbe stato possibile e si sarebbero rispettate le precedenze.
Una precisazione non peregrina, perché ancorché sia un settore appunto da professionisti, il mercato dei coco bond è stimato in 254 miliardi di dollari soltanto in Europa. Peraltro anche se sono quasi sempre bond emessi da banche europee, sono strumenti emessi in dollari, cosa che probabilmente preoccupa non poco Washington. Soltanto questa fetta del mercato degli strumenti tier 1 ne copre circa l’80% del totale.
Allora è soltanto una questione europea?
Non proprio, alcune differenze regolamentari di peso infatti spingono gli emittenti statunitensi (ma anche alcuni emittenti europei attivi negli Stati Uniti) a ricorrere a uno strumento alternativo, ma parzialmente simile.
Non si tratta in questo caso di coco bond a rigore, o almeno non di obbligazioni, ma di azioni privilegiate. Sono le trust preferred security (TruPS), delle azioni privilegiate che fungono anche da capitale tier 1 e quindi assolvono una funzione simile a quella dei coco bond europei.
Tra l’altro, a essere rigorosi, i coco bond sono una famiglia più ampia degli AT1, ossia degli additional tier 1 instrument, e comprendono anche i bond tier 2, dei coco bond che supportano il capitale tier 2 delle banche all’occorrenza.
Coco bond: dunque come funziona?
A semplificare tutto le banche hanno un patrimonio di vigilanza, che serve in primis proprio a garantire la solidità e solvibilità delle banche, la sua capacità di coprire dunque perdite e investimenti, chiari di luna dei mercati e così via.
Si tratta, in soldoni, del patrimonio di base Tier 1 (tier in inglese vuol dire livello, quindi primo livello del capitale). Comprende essenzialmente le risorse patrimoniali più pregiate: il capitale versato, le riserve (comprese quelle di sovrapprezzo su azioni), gli utili del periodo.
Vengono sottratti dal calcolo di questo capitale pregiato le azioni proprie, l’avviamento, le immobilizzazioni immateriali, le rettifiche di valore su crediti.
Vengono invece aggiunti proprio gli “strumenti innovativi di capitale”, detti anche Lower Tier 1, che comprendono proprio i coco bond di cui stiamo parlando.
Ma quanto vale il Tier 1? Ci sono requisiti minimi, che variano anche in ragione delle dimensioni della banca, e non sono neanche i soli parametri richiesti.
Quel che è importante capire è che per misurare questo capitale bisogna rapportarlo agli impieghi, anzi agli impieghi pesati per il loro specifico rischio. In poche parole una banca che ha 1 euro di capitale tier 1 ma ne presta 10 è molto più sicura di una banca che ha 10 euro di capitale tier 1 ma ne presta 10 mila.
C’è poi prestito e prestito e ogni banca applica dei coefficienti che valutano il rischio di ciascuno e alla fine tirano fuori l’RWA. Cos’è? Sono i risk-weighted-asset, ossia le attività (asset) ponderate per il rischio (risk-weighted), un po’ meno di tutti gli impieghi, perché alcuni prestiti hanno delle garanzie che li rendono meno rischiosi (si pensi ad esempio a una ipoteca immobiliare).
Comunque la percentuale di tier 1 sull’RWA ci dà il CET 1 ratio (procedendo sempre con qualche necessaria approssimazione).
Ora per tornare sul pratico. L’ultimo bilancio di Credit Suisse ha un tier 1 capital di 50 miliardi di franchi circa. Di questi 35,29 miliardi erano CET 1 Capital (ossia capitale tier 1 primario “puro”) e altri 14,73 miliardi circa (ma poi se ne calcoleranno in totale 16 miliardi complessivi in fase di svalutazione) di capitale aggiuntivo, i nostri AT1.
In pratica si trattava, prima dell’annuncio della fusione con UBS, di un capitale primario CET1 ratio pari al 14,1% degli asset ponderati per il rischio (RWA) e di un Tier 1 ratio (comprendendo gli AT1) del 20%.
Ora la conversione degli AT1 in capitale (e sostanzialmente il loro azzeramento in genere) è progettata proprio per evitare che il capitale primario scenda sotto certe soglie di sicurezza. Per l’esattezza il CET1 ratio dovrebbe scivolare al 5,125% o sotto.
Se già sembra complicato così, tranquilli, lo è molto di più perché c’è anche il capitale tier 2, ci sono i coco collegati al tier 2, ci sono i requisiti MREL, TLAC e molto altro ancora.
Quel che conta in questo discorso è che però, comunque, ai coco bond si dovrebbe ricorrere quando la riserva di capitale primario, e quindi anche il valore delle azioni, è stata azzerata.
Come è possibile dunque che i soci del gruppo siano stati, in parte, ripagati con azioni di UBS dal nuovo schema di fusione mentre gli obbligazionisti AT1 hanno visto azzerato il loro prestito?
Dettagli circolati sulla cronaca finanziaria spiegano che la documentazione di questi coco bond svizzeri prevedeva in pratica una clausola in base alla quale la Consob elevetica, ossia la Finma, poteva anche ignorare ogni ordine di priorità e quindi anche azzerare in tutto o in parte questi strumenti prima del totale o di una parte delle azioni.
La svalutazione anche totale di questi bond era inoltre possibile in caso di “viability event”, una serie di eventi che comprende anche il caso di un impegno irrevocabile di supporto straordinario da parte del settore pubblico. Proprio come accaduto.
In effetti, come spiegano le FAQ dell’operazione fornite dal Dipartimento federale delle finanze DFF elvetico: “Affinché l’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS possa andare in porto, la Confederazione concede una garanzia per eventuali perdite pari a un massimo di 9 miliardi di franchi su una parte chiaramente delimitata del portafoglio.
Ciò, nel caso in cui tale portafoglio dovesse effettivamente subire perdite. UBS assumerebbe i primi 5 miliardi di franchi e la Confederazione i 9 miliardi successivi”. Senza considerare la grande liquidità fornita dalla Banca centrale svizzera al sistema. Insomma, per quanto sorprendente, era previsto.
In Europa sembra che non sia possibile. Negli Stati Uniti, forse neanche
Di certo banche e investitori dalle spalle larghe stanno rivedendo tutti i contratti e le clausole che probabilmente in molti casi erano sfuggite o erano state considerate come eventualità remote.
Se le esigenze di capitale si moltiplicassero nel sistema bancario europeo e/o statunitense i contagi sarebbero probabili, anche per la via dei coco bond.
Anche in questo caso la fiducia che i supervisori sapranno o potranno restituire ai mercati dopo le anomalie degli ultimi giorni sarà essenziale.