Dazi USA, nuovi numeri da Europa e Istat sugli impatti

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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BCE: l'Europa rischia dallo 0,3% allo 0,5% del Pil. Vari studi citati dall'Istat calcolano per l'Italia un impatto da 4 a 7 miliardi di euro circa, ma sono proprio gli Stati Uniti a rischiare di più

Dazi USA, nuovi numeri da Europa e Istat sugli impatti

Calcoli sempre più precisi sul potenziale impatto dei dazi statunitensi sull’economia italiana ed europea.

Dazi USA: Bce, impatto fino allo 0,5% del Pil UE, dollaro debole e inflazione in crescita

Ieri anche la presidente della BCE Christine Lagarde ha dedicato una parte dell’audizione al Comitato Affari Economici e Monetari del Parlamento europeo al tema e, sottolineando la crescita dell’incertezza sui futuri rapporti commerciali globali, ha stimato che i previsti dazi contro l’Europa del 25% sulle importazioni potrebbero cancellare lo 0,3% del Pil europeo nel primo anno.

Non solo, ma la prevista e prevedibile contromisura europea, con nuove tariffe alle importazioni dagli Stati Uniti potrebbe portare l’impatto complessivo della nuova guerra commerciale allo 0,5% del Pil europeo.

Quindi sui valori del 2024 – un Pil dell’Europa a 27 di 17.935 miliardi di euro a prezzi correnti, un impatto che oscilla tra i 53,8 e gli 89,6 miliardi di euro per l’Europa a 27.

Ma si tratta di una stima di massima da collegare all’attesa, nelle stesse proiezioni della BCE a una crescita dello 0,9% del Pil nel 2025 e delll’1,2% nel 2026. Stime di febbraio che già comprendevano i dazi USA già attivi – segnatamente quelli tra USA e Cina, ma non quelle di recente annunciate e in arrivo per il 2 aprile.

Christine Lagarde ha inoltre sottolineato che l’impatto di un’eventuale guerra commerciale sarebbe più forte il primo anno e più lieve negli anni successivi, più o meno allineandosi alle dichiarazioni di Jerome Powell, numero uno della Fed statunitense che di recente ha parlato di effetto “transitorio” delle tariffe sui prezzi (in una riunione in cui comunque la banca centrale USA ha ridotto per quest’anno le stime di crescita del Pil e aumentato le previsioni sull’inflazione).

Per l’Europa – ha aggiunto Lagarde – le contromisure di Bruxelles e un tasso di cambio più debole dell’euro, a causa di una minore domanda statunitense per i prodotti europei – potrebbero portare a un rialzo dell’inflazione di circa mezzo punto percentuale. Questo impatto si attenuerebbe in seguito, nel medio termine, a causa del rallentamento delle attività economiche che ridurrebbe le pressioni inflazionistiche.

L’impatto reale dei dazi rimane difficile da prevedere (lo aveva di recente ammesso anche Powell): le stime restano incerte perché le conseguenze degli aumenti dei dazi potrebbero non essere lineari, per esempio per via di una forte ristrutturazione delle catene globali di approvvigionamento.

Ovviamente la BCE ribadisce il pronto impegno a un monitoraggio dello scenario e ad un’azione tempestiva di difesa della stabilità dei prezzi europei.

Una delle vie d’uscita per Bruxelles, suggerisce ancora la numero uno dell’Eurotower potrebbe essere in una maggiore integrazione dei legami commerciali – non in una maggiore frammentazione – con gli altri partner globali dell’Europa. Alcune analisi della Bce dimostrerebbero infatti che una maggiore integrazione commerciale con il resto del Mondo potrebbe più che bilanciare l’impatto di dazi unilaterali, da parte statunitense e, in risposta, da parte europea.

Questi sviluppi dello scenario potrebbero inoltre rafforzare i legami commerciali interni all’Eurozona, dove l’integrazione del Mercato Unico avrebbe accresciuto il Pil di un range tra il 12 e il 22% negli ultimi trent’anni.
L’integrazione europea sarebbe insomma una risorsa da potenziare per rendere il Vecchio Continente più resiliente agli shock esterni e, non da ultimo, permettere ai suoi Paesi membri di negoziare da una posizione di forza maggiore con i partner extra-europei.

Dazi Usa, quali sono quelli attivi e quelli in arrivo

La guerra commerciale è però già cominciata, in pratica da giorni. Lo scorso 12 marzo dei dazi universali del 25% su acciaio e alluminio e la preparazione dei partner commerciali più importanti degli Stati Uniti per questi beni a una reazione dura.

Prima ancora Trump ha introdotto dazi aggiuntivi del 10% sull’import dalla Cina (quindi li ha portati al 20%), che ha risposto portando al 15% le tariffe all’importazione dagli Stati Uniti su carbone e gas naturale liquefatto e al 10% quelle su petrolio, attrezzature agricole e certi tipi di autoveicoli.

La Cina è sicuramente uno dei Paesi più a rischio con le nuove politiche trumpiane, ma le sue importazioni di beni energetici da Washington sono limitate (il 2% di tutto il greggio importato e non più del 12% del gas liquefatto). Fra l'altro, secondo uno studio CEPII di Antoine Bouet e altri su cui torneremo saranno gli Stati Uniti quelli col maggiore impatto sul Pil dai dazi: il -1,3% di Pil in meno con il 22,9% di export in meno contro il -1,3% di Pil in meno e l'8,9% di esportazioni in meno della Cina. Al confronto per l'Europa è atteso un impatto decisamente inferiore. La pensano così anche altri studiosi che hanno condotto le valutazioni in fase di campagna elettorale Usa, ma come detto il quadro si è evoluto e per certi versi è peggiorato, anche se in molti pensano ancora che i primi a perdere da una nuova guerra commerciale saranno proprio gli Stati Uniti e, dopo i recenti timori su una improvvisa recessione a stelle e strisce, diversi operatori di mercato si aspettano una sfilza di allarmi dal corporate Usa con le prossime trimestrali.

All'attenzione tra gli altri, le catene di supermercati USA Walmart e Costco dipendono molto dalle importazioni cinesi e starebbero chiedendo alla Cina di tagliare i prezzi per bilanciare l’impatto, ma è probabile che su molti prodotti alla fine siano i prezzi allo scaffale ad assorbire buona parte dell’impatto.

Il Canada, che nel frattempo ha anche registrato un cambiamento del premier, con la successione dell’ex governatore delle banche centrali d’Inghilterra e del Canada Mark Carney alla guida del Paese al posto di Justin Trudeau appena lo scorso 14 marzo, è un partner commerciale storico degli Stati Uniti, ma le relazioni tra Washington e Ottawa sono ormai ai minimi storici. Il 4 marzo gli Stati Uniti hanno imposto concretamente dazi del 25% sui beni d’importazione dal Canada e del 10% su quelli energetici, il 12 marzo sono spuntati anche i dazi del 25% su acciaio e alluminio canadese che poi sono molto importanti per gli Stati Uniti visto che coprono il 24% di tutto l’acciaio importato da Washington e ben due terzi di tutto l’alluminio d’importazione. Il Canada ha prima risposto con un set di contromisure su beni d’importazione dagli Stati Uniti per 30 miliardi di dollari canadesi l’anno (dal succo d’arancia, al burro di arachidi, ai vini, agli spirit, fino a mobili, motociclette, abbigliamento sportivo e cosmetica) e il 13 marzo ha poi aggiunto tariffe reciproche su prodotti di acciaio importati dagli Stati Uniti per 12,6 miliardi id dollari e di alluminio per 3 miliardi di dollari, aggiungendo anche tariffe su altri beni per 14,2 miliardi e portando a 29,8 miliardi di dollari canadesi la platea di beni USA sotto dazio in questo ulteriore round (strumenti da lavoro, computer, server, monitor e altro ancora).

Dazi Usa, Europa sempre più nel mirino

Dopo i dazi universali del 25% su acciaio e alluminio del 12 marzo, anche l’Europa è entrata sempre più nel mirino e il prossimo 2 aprile dovrebbero scattare i temuti “dazi reciproci” che dovrebbero allargare il ventaglio dei beni nel mirino del fisco Usa all’automotive, al farmaceutico, ai semicondutotri, a diversi beni agricoli. Soltanto nel settore dell’acciaio l’Europa rischia di perdere 3,7 milioni di tonnellate di acciaio esportato negli Stati Uniti secondo Eurofer. Solo su alluminio e acciaio sono sotto attacco 8 miliardi di euro di esportazioni europee oltre l’Atlantico. Gli States sono infatti il secondo mercato di sbocco europeo per l’export di acciaio. Bruxelles ha già annunciato la decisione di riattivare i dazi contro gli Stati Uniti del periodo 2018-2020 (durante la prima amministrazione Trump) dal primo aprile e di attivare poi, dal 13 aprile, dazi su altri 18 miliardi di euro di importazioni statunitensi con una logica dollaro per dollaro simile a quella canadese. Bruxelles colpirà gli States nelle produzioni degli stati americani più vicini al partito repubblicano e maggiormente sostenitori dell’inquilino della Casa Bianca. Complessivamente beni d’importazione dagli Stati Uniti per circa 26 miliardi di euro dovrebbero finire sotto dazio europeo. In particolare le nuove tariffe dovrebbero colpire prodotti come barche, bourbon e motociclette (le Harley) nel primo round e quindi altri prodotti in genere agricoli. Negli ultimi giorni i toni Ue si sono fatti più sfumati, con la crescente pressione per un negoziato – la via prediletta e proposta a più riprese dalle maggiori economiche, quindi sembra che i contro-dazi europei possano slittare, ma è certo, che se le misure statunitensi resteranno in piedi, ci sarà una risposta dura e chiara.

Dazi Usa, l'impatto sull'Italia

Ma ieri sull’impatto dei dazi si è soffermata anche l’Istat, analizzando più specificamente lo scenario per l’Italia. Nel Rapporto sulla competitività dei settori produttivi del 2025 ampi approfondimenti sono stati effettuati dall’istituto presieduto da Francesco Maria Chelli. Ancorché non aggiornatissimo (ma il quadro sui dazi di Trump, tra annunci, promesse, revisioni e così via è in aggiornamento quasi quotidiano), il documento offre – come ogni anno – una prospettiva molto approfondita sulle tendenze dell’economia italiana ed europea. L’Istituto nazionale di statistica riporta gli esiti principali di alcuni importanti studi terzi sul delicato dossier degli impatti della guerra commerciale degli Stati Uniti.
Alla data del 28 febbraio – data di redazione del rapporto Istat pubblicato ieri - erano comunque già attive alcune misure che si inserivano poi in una serie di annunci fatti dallo stesso Trump in campagna elettorale. Durante la corsa per la Casa Bianca il tycoon aveva minacciato/promesso dazi tra il 10 e il 20% su tutti i Paesi del mondo e fino al 60% contro la Cina. In realtà poi dall’insediamento a oggi un accento particolare è stato posto sulle relazioni con i confinanti (e storici alleati) Canada e il Messico. Si può confermare oggi l’attivazione lo scorso 12 marzo dei dazi universali del 25% su acciaio e alluminio e la preparazione dei partner commerciali più importanti degli Stati Uniti per questi beni a una reazione dura.

Fra gli studi citati dall’Istat c’è quello di Svimez che ipotizza due scenari per l’Italia: dazi su tutti i beni al 10% e dazi al 20%. Nel primo caso il Pil italiano perderebbe lo 0,1% e 27 mila posti di lavoro con un calo delle esportazioni del 4,3%. Nel secondo caso – quello con dazi al 20% il Pil perderebbe lo 0,2% e posti bruciati sarebbero 57 mila con un taglio all’export dell’8,6%. L’impatto sarebbe comunque asimmetrico con cali a due cifre dell’export di agroalimentare, farmaceutico e chimica e per mezzi di trasporto e meccanica, mentre mobili e moda dovrebbero subire cali minori.

Per Prometeia in soldoni si rischiano 4 miliardi di euro con un 10% di nuovi dazi su quelli che già sono sottoposti ma dazio americano e 7 miliardi con un 10% su tutti i prodotti.

Per Intesa, che parte ancora da dazi del 10% su tutti i prodotti (eliminando dalla lista quelli con dazi già superiori a questa aliquota) l’impatto sul Pil italiano sarebbe inferiore allo 0,4% , circa 3 miliardi di euro in termini di export, tra macchinari e componentistica (1 mld), veicoli leggeri (500 mln) e farmaceutica (370 mln) visti come i più colpiti.

Si tratta però di uno scenario persino ottimistico per certi versi, perché, come evidenziato le catene di approvvigionamento globali rischiano uno shock strutturale di lungo periodo e perché queste strette Usa si inseriscono in un trend storico di concentrazione degli scambi mondiali nei rapporti tra USA e Cina ai danni di un’Europa sempre più marginale.

Gli effetti sono quindi largamente imprevedibili per molti versi, come affermano i banchieri centrali, e le stime sono di massima e ancora sottoposte al vaglio dell’effettiva attivazione di misure spesso ancora soltanto annunciate.

Anche sulle contromisure commerciali è difficile esprimersi perché poi, come gli Stati Uniti spesso dipendono dall’importazione di materie prime e prodotti intermedi destinati a successiva lavorazione, anche l’Italia e l’Europa su molti fronti importano beni intermedi e primari rilevanti dagli States. Il quadro insomma è in rapida evoluzione e ancora molto incerto. Sicuramente però le tinte sono fosche.

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