Dazi USA in arrivo ad aprile su auto, semiconduttori e farmaceutici
pubblicato:La guerra commerciale continua, Trump mette nel mirino settori chiave della produzione europea. Cosa rischia l'Europa? Cosa l'Italia? Ecco il quadro
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Trump minaccia nuovi dazi: il 2 aprile potrebbero scattare al 25% sulle auto e al 25% “o più” su semiconduttori e prodotti farmaceutici.
Nel giro di un anno le nuove tariffe potrebbero anche aumentare ed è un segnale duro per l’Europa, che attualmente impone dazi del 10% sulle quattro ruote d'importazione contro il 2,5% attualmente chiesto dagli States sull’import di vetture. Anche Messico e Canada sono rischiano molto.
Dazi USA, le quattro ruote europee in retromarcia
In queste ore Stellantis, esposta su tutti questi fronti perde l’1,46% a Piazza Affari.
Ma arretrano in borsa anche le tedesche Volkswagen (-2,4%), BMW (-2,32%) e Mercedes (-1,99%). Anche Renault perde a Parigi il 2,13%
Di recente l’Europa avrebbe offerto in via preventiva a Washington un taglio dei dazi sulle auto dal 10% al 2,5%, in linea in pratica con le tariffe Usa, e avrebbe anche inserito le proposte in un pacchetto che conterrebbe anche maggiori acquisti di gas e armamenti dagli States. Ma forse non basta.
Deboli oggi anche i semiconduttori con lo Stoxx Europe Total Market Semiconductors in calo dello 0,35%, ma STMicroelectronics che innesca un rally di oltre il 7% a 24,74 euro dopo che Jefferies ha promosso il titolo da hold a buy con prezzo obiettivo lanciato a 34 euro.
Forte il segnale degli analisti sulla casa franco-italiana del chip in profonda crisi da tempo: il peggio è passato, la crescita dovrebbe accelerare nella seconda metà di quest’anno. Fra i vantaggi per STM potrebbe esserci anche DeepSeek, perché la diffusione di modelli d’intelligenza artificiale cinesi a basso costo potrebbe favorire le vendite di microcontrollori di STM.
Dazi Usa, i numeri della guerra commerciale
I nuovi dazi annunciati da Trump rimangono tuttavia un tema centrale per i mercati. Il neopresidente punta sui dazi doganali come strumento di politica economica e negoziazione commerciale, già da settimane scuote i mercati con annunci e ordini esecutivi che agitano la finanza globale, europea e italiana.
Uno dei pilastri della politica del presidente USA è il riequilibrio del deficit commerciale, gli Stati Uniti hanno registrato nel 2024 un record di deficit commerciale con il resto del mondo di 1.200 miliardi di dollari, un balzo del 14%. Washington infatti importa beni per 3.300 miliardi di dollari (il dato dell’ultimo anno è un record), ma esporta “solo” per 2.100 miliardi.
Va precisato però che si tratta di beni, perché se si includono anche gli scambi di servizi (come la finanza, i trasporti o i viaggi) il deficit si comprime a 918 miliardi di dollari (+17% nel 2024).
Il nemico numero uno resta la Cina, per molteplici motivi, ma la pressione rispetto al primo mandato di Trump è diminuita, perché il deficit commerciale con la Repubblica Popolare pur essendo cresciuto l’anno scorso a 295 miliardi di dollari è molto inferiore al record da 418 miliardi del 2018. Questo perché i dazi del primo mandato Trump su oltre 300 miliardi di dollari di importazioni cinesi negli Usa hanno prodotto qualche risultato e costretto diverse imprese a rivolgersi a forniture dal Messico (ora nel mirino di Trump come noto) o dal Vietnam.
Gli effetti collaterali dell’obiettivo “deficit zero” di Trump potrebbero però essere devastanti anche per l'Europa e i mercati finanziari globali. La nuova guerra commerciale è già scoppiata, con impatti su settori chiave come automotive, tecnologia, beni di consumo e materie prime.
Secondo Blerina Uruci, Chief U.S. Economist di T. Rowe Price, si rischia uno shock della domanda globale, a partire proprio da quella delle famiglie e delle piccole imprese statunitensi che rischiano un impatto inflazionistico dei dazi.
La manifattura USA potrebbe in qualche caso trarre dei vantaggi dalle nuove barriere doganali sui prodotti d’importazione, ma in molti casi il costo in crescita di materie prime e prodotti dall’estero peserebbe sui margini delle imprese e spingerebbe al rialzo i prezzi al consumo.
A rischio in primis Canada e Messico molto esposti con gli Stati Uniti, ma anche i piccoli hub manifatturieri dell’Asia o dell’Europa centrale e orientale, ma ci sarebbero dei danni diretti e collaterali un po’ per tutti.
Anche per l’Europa insomma i dazi di Trump sono un grosso pericolo. Jack Janasiewicz di Natixis IM Solutions, sottolinea che le categorie di esportazioni europee più vulnerabili includono automobili, prodotti chimici e macchinari, settori che rappresentano una quota significativa del PIL europeo. L’imposizione di dazi USA su questi beni metterebbe a dura prova le aziende europee, già alle prese con una crescita economica debole e una domanda incerta.
Ma anche gli effetti indiretti potrebbero pesare non poco: circa il 25% delle entrate UE viene dai Paesi Emergenti e in particolare dalla Cina, un impatto dei dazi su queste economie peserebbe anche sull’Unione.
Il quadro è comunque molto complesso e in passato studi della Federal Reserve statunitense hanno stimato come transitorio l’impatto inflazionistico dei dazi (anche se gli orientamenti più recenti sembrano diversi).
In ogni caso ci sono forti effetti di riequilibrio, per esempio se gli Stati Uniti impongono dazi del 10% sul Messico, il peso messicano si svaluta del 10% e alla fine il prezzo delle importazioni corretto per l’effetto valutario in dollari annulla l’effetto dei dazi sull’import USA.
Dazi Usa, la variabile politica
Secondo Gilles Moëc, Chief Economist di AXA Investment Managers, l’Europa non può restare a guardare, “L’UE deve dimostrare la sua solidità interna”, perché la frammentazione politica e l'incertezza economica potrebbero rendere più difficile una risposta coordinata ai dazi USA, con danni ulteriori. Le elezioni di domenica 23 febbraio in Germania saranno un passaggio chiave per ricostituire quella faticosa squadra che a Bruxelles fatica a coordinarsi e per andare oltre le contraddizioni degli ultimi incontri di Parigi sul caso dell'Ucraina.
Ancora una volta ieri Mario Draghi ha comunicato al Parlamento europeo il senso dell'urgenza di queste istanze. Serve agire subito come se fossimo un unico Stato, ha dichiarato, l'allarme lanciato dal report di settembre si è fatto ancora più grave. Allora il pericolo principale era la crescita della Cina, ora dobbiamo fronteggiare i nuovi dazi Usa che minacciano il nostro maggiore mercato di esportazione e che potrebbero spingere la Cina a scaricare in Europa la sua sovracapacità produttiva.
Ma ci sono anche fattori che potrebbero spingere parte dell'Amministrazione Trump alla prudenza. Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR, sottolinea che il rischio di una “seconda ondata di inflazione” simile a quella degli anni Settanta è reale. A gennaio l’inflazione USA è salita a sorpresa al 3% e l’inflazione “core” (quella priva degli effetti volatili di energia e alimentari) si è portata al 3,3%
“Non basta un dato per individuare una tendenza, ma il mercato del lavoro e l’inflazione suggeriscono che la Fed procederà lentamente con i tagli dei tassi,” afferma Benetti.
Dollaro forte, crescente sfiducia sullo stato delle finanze statunitensi, corsa all’oro come bene rifugio si aggiungono al quadro generale di incertezze e anche in Italia da tempo si fanno i conti sui possibili impatti.
Dazi Usa, gli impatti in Italia
Codacons teme un impatto dai dazi di Trump sui prezzi di beni di largo consumo. Dal riso al succo d’arancia, dal tabacco al cacao, agli snack, al formaggio.
Rischio di rincari anche per whisky, vodka o rum, per jeans, scarpe, magliette, intimo, console e videogiochi, fino alle moto Harley Davidson.
Eventuali dazi statunitensi sull’Europa scateneranno probabilmente dei contro-dazi da Bruxelles e le importazioni di beni in Italia dagli Stati Uniti hanno raggiunto l’anno scorso i 25,9 miliardi di euro.
Secondo il Sole 24 Ore rischiano un impatto importanti esportatori italiani negli Stati Uniti.
Il ventaglio delle stime però è ancora molto ampio, si passa dai 3 ai 10 miliardi di euro, due cifre completamente diverse.
Le vendite negli States coprono il 10,8% del venduto italiano all’estero, settori di nicchia come il sidro o i vini a base di frutta rischiano tre quarti del loro export. A rischio soprattutto, per volumi complessivi, vino e olio, aerei, montature per occhiali, farmaceutica e macchinari.
Mobili, arredi vendono tra il 10 e il 15% della produzione negli Stati Uniti, ma sono a rischio anche le forniture per navi e aerei, per la meccanica strumentale. Il vino venduto negli Stati Uniti copre un quinto dell’export e pesano ancora di più le quote di olio d’oliva, salse e condimenti mentre per la farmaceutica gli States sono il primo mercato, uno sbocco da 10 miliardi di euro su 54 miliardi esportati nel mondo.
Cifre che alla luce delle nuove minacce di Trump impensieriscono ancora di più.