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Rame: un boom silenzioso, BHP-Anglo American e la lotta per il metallo rosso

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
7 min

Il rame punta ormai ai 10 mila dollari a tonnellata, ma il nuovo megadeal potrebbe ridisegnare equilibri complicati tra Cina, Arabia Saudita e mondo occidentale. Di certo è un segnale anche geopolitico importante, ecco perché

Rame: un boom silenzioso, BHP-Anglo American e la lotta per il metallo rosso

Chi avesse comprato l’ETF sul rame di Wisdomtree (GB00B15KXQ89) quotato a Piazza Affari ai 31 euro circa avrebbe guadagnato a oggi un bel 23% di performance netta, dalla quale certamente avrebbe dovuto togliere il 26% di tasse, ma comunque sarebbe rimasta per 4 mesi scarsi di performance un’ottima performance. E non è detto che sia finita.

Il rame fisico in dollari ha guadagnato negli ultimi tre mesi il 15,4% al London Metal Exchange controllato dalla Borsa di Singapore HKEX. La fiammata di oggi a 9.958 dollari a tonnellata punta ormai il dito chiaramente verso la soglia psicologica dei 10 mila dollari. Ma rischia di essere un prezzo troppo caro per il futuro della transizione energetica.

Rame, il boom silenzioso che appronta un mega-accordo

Alla faccia dei requiem sulla transizione energetica, le rinnovabili e le auto elettriche questo rally del metallo rosso è guidato proprio da una domanda imperativa del mercato. Tra guerre e debito pubblico, prezzi delle Tesla e ristrutturazione delle filiere energetiche, la corsa al rame si è fatta strada negli ultimi mesi, nonostante la forza del dollaro.

Fino ad attirare mani forti e mega deal, come quello di BHP su Anglo American, la maxifusione da 31,1 miliardi di sterline appena rifiutata dalla preda, che metterebbe a segno una concentrazione notevolissima nel campo dell’estrazione mineraria di rame.

Rame: Anglo American, gli Arabi e la Cina

Stamattina alle 7:00 Anglo American ha recapitato alla Borsa di Londra un rifiuto della proposta di BHP che non ha sorpreso molto, ma si inserisce in un contesto molto più generale. La formula di rito è: “Il consiglio di amministrazione ha valutato la proposta [di BHP] con i suoi consulenti e ha concluso che sottovaluta considerevolmente Anglo American e le sue prospettive”.

Il presidente Stuart Chambers ha ricordato come prima cosa proprio il rame, che costituisce il 30% del portafoglio di Anglo American e che prevede magnifiche sorti e progressive (citazione nostra) alla luce degli sviluppi della transizione energetica e di altri importanti trend di domanda.

BHP aveva messo sul piatto da qualche giorno una proposta articolata che solo ieri aveva fatto irruzione nei mercati in dettaglio: Anglo American avrebbe dovuto vendere le controllate sudafricane quotate American Platinum Limited e Kumba Iron Ore Limited (a poca distanza dalle elezioni sudafricane di fine maggio) e avrebbe incassato 0,7097 azioni BHP per ogni azione conferita all’offerta, diluendosi inevitabilmente nel nuovo gigante delle miniere globali che avrebbe così raggiunto posizioni globali di assoluto rilievo nell’estrazione del metallo rosso.

Ora la questione è politica e geopolitica, oltreché industriale e finanziaria. Infatti Anglo American è quotata a Londra ma è un pilastro dell’economia sudafricana e chiedere lo scorporo di platino e metalli per vendersi a una società straniera dove alla fine si conterebbe molto meno che oggi in casa è una sfida alla stessa comunità finanziaria locale (e non solo). Anche le due controllate quotate del Platino e dei minerali di ferro hanno un peso sociale e politico, oltreché economico. In gioco ci sono poi le partecipazioni importanti di colossi della finanza globale come BlackRock, Vanguard, State Street, Norges, UBS, Amundi… la crème della finanza mondiale insomma.

Il presidente esecutivo di Anglo American Stuart Chambers ha guidato in passato la ARM Holding britannica che fa le architetture dei chip della maggior parte dei telefonini del mondo. Il CEO sudafricano Duncan Wanblad ha speso la vita nelle attività minerarie da manager. Ma non è solo una questione sudafricana.

La lotta per le materie prime, ca va sans dire, chiama in causa il mondo arabo e ovviamente la Cina e gran parte delle miniere strategiche del mondo. Anglo American ha importanti miniere di rame in Cile (il 44% di Collhausi e il 50,1% di Los Bronces), la Quellaveco in Perù. Il gruppo produce circa 300 mila tonnellate rame l’anno. Senza contare l’85% di Beers, ossia un dominio nel diamante (sempre meno redditizio tanto che ci sono voci di vendita) e poi manganese in Sudafrica e Australia. Il minerale di ferro è non solo a Kumba, ma anche in Brasile a Minas Rio e c’è pure la terza quota mondiale di carbone per l’acciaio, con miniere in Australia soprattutto e clienti in Europa e Asia (tra i tanti). C’è anche il platino e il nickel e ferro-nickel brasiliano.

Rame, chi è BHP?

Dall’altro lato c’è BHP, di chi è? Il 26,54% è di un trustee della banca britannica HSBC che ha come primo socio all’8,73% la cinese PING AN Assett Management, seguita dai soli internazionali (Vanguard, BlackRock, Norges…), ci sono però nel capitale del colosso internazionale delle miniere anche JP Morgan, Citicorp, soci sudafricani e altri ancora. Un parterre internazionale di investitori in una infrastruttura molto fisica del mondo contemporaneo.

Se infatti gli interessi cinesi per le materie prime sono ampiamente noti in tutto il mondo, quelli arabi sono più recenti in molti settori, non a caso il Financial Times scriveva un illuminato articolo dal titolo “Come gli Stati del Golfo stanno mettendo il loro denaro nelle miniere” all’inizio di questo mese proprio partendo dalla contesa per una miniera di rame in Zambia, quella di Mopani.

Ora l’offerta di BHP per Anglo American rischia di sovvertire molti degli equilibri precari del mondo delle materie prime e al tempo stesso evidenzia le tensioni intorno a megatrend che il nuovo relativo boom degli idrocarburi ha soltanto rinviato, a partire dal rame che serve per tutta l’elettrificazione in generale per finire nell’oro che la Cina compra a man bassa da quando ha cominciato a lottare con gli Stati Uniti su più fronti fino a venderne il debito pubblico.

Il rame che serve alla Cina in casa (e anche all'estero)

Se tutto il mondo per ora fa retromarcia sulle auto elettriche bisogna in questa lotta per la conquista del rame considerare almeno alcuni numeri per capire che per la Cina è una questione sempre più nazionale.

L’anno scorso si sono venduti quasi 14 milioni di auto con una motorizzazione elettrica, sia elettriche pure (BEV), che ibride plugin (PHEV), nel mondo e così il parco totale di auto elettriche ha raggiunto i 40 milioni circa, di cui 16,1 milioni soltanto in Cina, circa il 60%, seguito dal 25% dell’Europa e dal 10% degli Stati Uniti. Significa che la Repubblica Popolare già solo con il suo mercato nazionale è un affamato cronico di rame che deve portare l’energia alle quattro ruote in giro per le strade di questo immenso Paese. I dati sono del Global EV Outlook dell’IEA.

Poi ci sono i pannelli fotovoltaici e le pale eoliche e la digitalizzazione e i server e tutto il resto dell’elettronica varia in cui la Cina intende non solo avere una fetta della torta, ma essere il riferimento globale. Anzi in fondo il dominio c’è già, perché se si guardano le spedizioni di moduli fotovoltaici i primi costruttori del mondo sono ancor cinesi con qualche puntatina di minoranza in settori specifici dal Canada e dagli Stati Uniti (Europa ancora assente o quasi).

Rame: giganti in cerca di equilibrio, anche sul prezzo

Il rame serve comunque e BHP uno protagonista mazziere in questo settore con 1.716,5 tonnellate di rame prodotte l’anno scorso tra Australia, Sudamerica e Stati Uniti.

Produce più rame nel mondo soltanto la cilena Codelco (statale), con la quale è comunque un testa a testa. Ci sono poi la svizzera Glencore (1000 tonnellate nel 2023) e la statunitense Freeport-McMoRan (circa 444 mila tonnellate).

Il consolidamento BHP-Anglo American creerebbe quindi un nuovo gigante che potrebbe influenzare il prezzo in molte regioni. Potrebbe anche consolidare l'asse Cina-Stati Arabi sulle rinnovabili e la mobilità elettrica: ci sono già accordi di produzione delle cinesi BYD e Chery in Uzbekistan e Arabia Saudita, dove a sua volta altre imprese cinesi ottengono il via libera, come quello per un investimento da 5,6 miliardi con la cinese Human Horizons (altro produttore di auto elettriche).

Gli incroci non mancano, ma c’è anche da dire che potere controllare i prezzi del rame, magari aumentando la produzione se salissero troppo, sarebbe per Beijing una manna dal cielo, o forse un'utile strategia in vista di un’espansione globale che è solo agli inizi.